Il cerchio si stringe intorno all’insurgent. Donald Trump ha di fronte un osso duro come il procuratore federale Jack Smith, deciso ad andare fino in fondo, a inchiodarlo alle sue trame cospirative, di fatto golpiste. Eppure, anche se posto agli arresti, le accuse a suo carico – le ultime, gravissime, mossegli da Smith, che s’aggiungono ad altre di diversi procedimenti giudiziari in corso – non gli impedirebbero di continuare la corsa presidenziale né gli precluderebbero – se eletto presidente – il ritorno nello studio ovale della Casa bianca.

Lo stress test a cui è sottoposta l’America è un serial in un continuo crescendo senza fine. Nel suo tracimare, la vicenda giudiziaria di Trump non solo conferma, retrospettivamente, il rischio esistenziale posto al sistema democratico dal fallito golpe del 6 gennaio 2021, ma mette a nudo l’inadeguatezza del sistema stesso a superare davvero quel rischio, a elaborare un trauma di quella portata se, come si teme, non riuscirà a mettere fuori gioco definitivamente chi si è azzardato a ordire una trama eversiva di tale portata.

POTREBBE ANZI succedere che proprio quella prova di forza, fallita per poco e finita nei tribunali, apra la strada all’usurpatore, alla sua presa del potere, stavolta per vie legittime, addirittura come risarcimento di un enorme torto subito. La rivincita della sua farneticante narrazione.

Si legge che l’iniziativa giudiziaria di Smith sia frutto di mesi di lavoro scrupoloso e sia confezionata in modo da mettere alle corde Trump. Però si è detto lo stesso in occasione dei precedenti casi di indictment e ai tempi dell’inchiesta parlamentare del Jan. 6 Committee.

Fatto sta che la raccolta di fondi, dopo quegli eventi, ha avuto clamorose impennate e si è desertificato il campo repubblicano, lasciando solo Trump in testa nei sondaggi, con un vantaggio irrecuperabile nei confronti di Ron DeSantis. Il quale, come atto di sottomissione verso il maschio alfa del suo partito, si è scagliato con violenza contro la magistratura che osa accusare Trump.

E sì, il problema della fragile tenuta del sistema americano è ulteriormente messo in evidenza dalla consegna in toto del Partito repubblicano a Donald Trump. D’altra parte è a sua volta la logica conseguenza di un altro inquietante capitolo dell’attualità americana: la tenace, irremovibile forza della base di Trump, Make America Great Again (MAGA), rafforzata proprio da quelle inchieste che dovrebbero aprire loro gli occhi sulla reale identità del loro beniamino.

Di Reagan, si diceva che era un Teflon President. Qualsiasi errore, qualsiasi passo falso, gli era perdonato dai suoi sostenitori, non si attaccava alla sua base di consenso come la pentola antiaderente. Con Trump si va molto oltre. Un recente sondaggio rivela che lo ZERO per cento dei repubblicani MAGA pensa che Trump abbia commesso gravi reati federali.

Solo il 2 per cento ammette che abbia fatto «qualcosa di sbagliato» portandosi a Mar-a-Lago documenti top secret. Nove su dieci ritengono che i repubblicani devono sostenere convintamente Trump di fronte alle accuse dei magistrati. E tre quarti concordano con Trump nel considerare truccate le elezioni in cui vinse Biden.

L’ELENCO DELLE FOLLI credenze che circolano nella base trumpiana è lungo e s’allunga vieppiù nel tempo. Ha ragione David Corn, su Mother Jones, a sottolineare la responsabilità primaria di Trump nel creare e alimentare tutta questa crap, immondizia, stigmatizzando però come «dopo le elezioni del 2020 Trump avvelenò il dibattito nazionale con le sue teorie complottiste, senza che i dirigenti repubblicani contrastassero le sue bugie per paura di alienarsi gli elettori di Trump, consentendogli così di montare diversi e sovrapposti complotti per conservare il potere», oggi al centro dell’indagine di Smith.

Ai tempi del Watergate esisteva un mondo repubblicano ancora in grado di anteporre l’interesse nazionale a quello del partito e Nixon fu costretto alle dimissioni. Oggi la difesa delle regole democratiche è affidata a un solo partito.

Tra un anno, in questa stagione, si celebreranno le convention del Partito repubblicano a Milwaukee, e poi del Partito democratico a Chicago. Tra un anno, ma è come fosse domani. Le primarie si presentano come un rito vuoto, essendo già deciso che a competere saranno Trump e Biden. Due ottantenni – Trump lo sarà nel secondo anno di presidenza, dovesse essere eletto – impegnati in un duello ciclopico in cui è in palio il futuro stesso della democrazia americana.