Tra le molte citazioni che nel corso del tempo sono state attribuite ad Agatha Christie una in particolare è stata spesso utilizzata per definire in qualche modo l’intera personalità della scrittrice considerata a ragione non solo come una delle protagoniste della letteratura del XX secolo ma tra le figure più rilevanti per lo sviluppo del romanzo poliziesco. Eppure, non c’è forse affermazione che suoni più stridente se messa a confronto con almeno un capitolo significativo della biografia dell’autrice britannica, di quella che l’avrebbe vista valutare in questi termini la propria come l’altrui esistenza: «la vita ha spesso una trama pessima. Preferisco di gran lunga i miei romanzi». Parole sovente utilizzate per riassumere in poche battute la portata dello sguardo della scrittrice, scomparsa nel 1976 a 86 anni lasciando dietro di sé oltre un centinaio di opere, tra romanzi, racconti e testi teatrali e soprattutto le indimenticabili indagini condotte da Hercule Poirot e Miss Marple. Se, quale che sia il contesto nel quale si trovano immersi, i personaggi da lei creati paiono faticare non poco a togliersi di dosso quella flemma tipicamente britannica, anche se Poirot è belga, che li spinge a commentare con poche, misurate parole – del tipo: «È davvero un brutto colpo» – anche l’omicidio di una persona cara, lo stesso fascino algido rispecchierebbe anche la personalità di Christie.

MA, SE RISULTA DIFFICILE riassumere in questi termini il profilo di un’autrice che ha saputo imprimere in modo indelebile il proprio stile nel panorama della narrativa internazionale non già con i romanzi rosa del debutto, ma con le infinite e torbide variazioni dell’«arte del delitto», l’immagine austera, fredda e distaccata che si è soliti attribuirle si scioglie progressivamente in un vortice di emozioni, passione e istinto se si guarda ad una vicenda che l’ha riguardata in prima persona. E di cui, malgrado abbia impiegato oltre 15 anni per scrivere la propria autobiografia, uscita infine postuma, ha scelto deliberatamente di non parlare. Di cosa si tratta? Nel dicembre del 1926, a 35 anni, Christie scomparve per 11 giorni, senza che di quanto era accaduto nel frattempo si sapesse nulla di certo quando fece infine ritorno a casa. Causa scatenante della scelta di far perdere le proprie tracce, la volontà da parte del marito Archie, già pilota del Royal Flying Corps durante la Prima guerra mondiale, di divorziare per poter sposare una donna più giovane che era già la sua amante da un paio d’anni. Dopo questa rivelazione e una lite con il marito, Agatha Christie scomparve dalla loro casa di Sunningdale, nel Berkshire, nel Sud dell’Inghilterra. Sarebbe stata rintracciata in un hotel dello Yorkshire dove si era registrata con un’altra identità, dopo lunghe ricerche che avevano coinvolto migliaia di agenti, scosso l’opinione pubblica, non solo in Gran Bretagna visto che della vicenda si occupò anche il New York Times e spinto Sir Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes ma che coltivava anche una profonda passione per lo spiritismo, a consultare una medium per risolvere il caso.

DELLA VICENDA si è parlato più volte, a Christie fu diagnosticata un’amnesia e anche una depressione in seguito alla morte della madre avvenuta nello stesso periodo. Nel 1979 il regista Michael Apted ha dedicato un film alla storia, Il segreto di Agatha Christie, interpretato da Vanessa Redgrave, Dustin Hoffman e Timothy Dalton: una versione «gialla» dei fatti che vede la scrittrice pianificare un finto suicidio per farne ricadere la responsabilità sull’amante del marito. Nessuno però fino ad ora aveva utilizzato quel capitolo, certamente doloroso e intimo della biografia dell’autrice britannica per offrire – come fa Nina de Gramont con Il caso Agatha Christie (Neri Pozza, pp. 328, euro 18, traduzione di Massimo Ortelio) -, partendo da una ricostruzione dei fatti basata su quanto scritto fin qui, un ritratto inedito e seducente della sua personalità.

DOCENTE DI SCRITTURA creativa all’Università del North Carolina, de Gramont descrive l’universo che ruota intorno a Christie e alla sua opera, l’aristocrazia britannica che sembra guardarla con sufficienza quando non con sospetto, l’eco ancora ben presente all’epoca del profondo trauma scaturito dalla Prima guerra mondiale, la sfida alle convenzioni che implicitamente il suo lavoro sembra muovere. Ma, soprattutto, mette in scena un intreccio nel quale non c’è spazio per il ruolo di vittima che le cronache attribuirono alla scrittrice, ingannata e abbandonata dal marito. Al contrario, sia lei che «l’amante» di quest’ultimo, Nan O’Dea sono le vere protagoniste del libro e finiranno non a caso per legarsi in un rapporto che è fatto prima di tutto di solidarietà. La giovane testimonia del trattamento riservato alle madri single nella cattolica Irlanda del periodo e insieme, pur nella distanza di ruoli e condizioni, finiscono per incarnare quello che l’autrice descrive come «il tempo delle donne che scompaiono», vittime della violenza maschile ma anche possibili protagoniste di una drastica scelta di libertà che proprio per questo non ha bisogno di alcuna spiegazione di lasciare traccie visibili dietro di sé.

C’È UN MISTERO in apparenza senza soluzione nella vita di Agatha Christie, pare suggerire de Gramont, anche se è in pagine dense di calore e consapevolezza che emergono le risposte a tanti perché e soprattutto il ritratto di una donna coraggiosa e determinata tutt’altro che distante la vita e capace di calarsi soltanto nei segreti di carta dei suoi romanzi. Consapevole, come afferma Hercule Poirot che talvolta «ci sono cose più importanti che scoprire un assassino».
Se la scomparsa di Agatha Christie interroga ciò che sappiamo, o siamo convinti di conoscere di una delle figure più importanti nella storia della detective fiction, il ritorno nelle librerie di uno dei classici del genere – Il mistero della camera gialla di Gaston Leroux (Ponte alle Grazie, pp. 332, euro 16,80, traduzione di Benedetta Marietti) – consente di valutare quanto salde siano le radici di romanzi che ormai da tempo hanno lasciato l’angusto ambito della «letteratura di genere».

PUBBLICATA A PARIGI nel 1907, l’indagine relativa al tentato omicidio di mademoiselle Mathilde Stangerson, avvenuto all’interno di una stanza chiusa a chiave del maniero gotico in cui vive con il padre alle porte della capitale francese, racconta in realtà anche il tramonto della Belle Époque, i processi agli anarchici, l’affermarsi della stampa popolare, le inquietudini rispetto ai progressi e agli enigmi della scienza moderna: il mistero che analizza ha molto a che fare con le incertezze e le ansie che il nuovo secolo ha portato con sé. Ma, soprattutto, come sottolinea Alessandro Robecchi nella bella prefazione che apre il volume, questa storia firmata dallo stesso autore de Il Fantasma dell’Opera, «è una specie di manifesto poetico del genere noir, mistero, polar, giallo, poliziesco, crime o come poi si chiamerà nel mondo, con migliaia di sfumature». Questo, senza contare che la storia citata da Christie attraverso le parole di Poirot, e che sbeffeggia con simpatia i metodi di Poe e Conan Doyle, segna il debutto di Joseph Joséphine, meglio noto come Rouletabille che abituerà i lettori ad affrontare ogni caso in apparenza inspiegabile grazie ad un metodo improntato al «verso giusto della ragione».
Anche Ernestine Kirsch e Anton Böck, pensionata la prima e farmacista il secondo, protagonisti di Omicidio al Grand Hotel (Emons, pp. 250, euro 15, traduzione di Rachele Salerno), capitolo d’esordio della serie ideata dalla scrittrice viennese Beate Maly, indagano all’interno di uno «spazio chiuso», solo che in questo caso si tratta di un albergo di una nota località sciistica della Bassa Austria isolato dalla neve. Gli omicidi misteriosi, nello specifico, hanno luogo nell’inverno del 1922 mentre ancora non si è spento nella zona l’eco sinistra della carneficina del Primo conflitto mondiale, in particolare delle battaglie combattute lungo il corso dell’Isonzo, e nuove minacce già si profilano all’orizzonte in tutto il mondo di lingua tedesca.

SE CON LE SUE MACCHINE infernali e una visione apocalittica del rapporto tra la Terra e il resto dei pianeti, e i loro possibili abitanti, fu capace di anticipare i quesiti della futura science fiction, con titoli come La guerra dei mondi e La macchina del tempo, nel racconto compreso nella raccolta Una mossa oscura (Elliot, pp. 118, euro 12,50, traduzione di Elena Vaccaro), che lo vede al fianco di Ethel Lina White, Arthur Morrison, Emma Orczy e Charles Wadsworth Camp – autori e autrici della prima metà del Novecento -, H.G. Wells si misura con un piccolo mistero che ha a che fare con un furto di diamanti. Più ancora dell’indagine in sé sono però le parole che lo scrittore britannico scomparso nell’agosto del 1946 dedica al crimine che illustrano tutto il fascino di queste testimonianze d’antan del fascino perpetuo del noir. «È incerto se il furto sia da considerare uno sport, un’attività imprenditoriale, o un’arte – scrive Wells -. Per essere un’attività imprenditoriale, la tecnica è a malapena rigida a sufficienza, e le sue pretese di essere considerato un’arte sono invalidate dall’elemento mercenario che ne qualifica i trionfi. Tutto sommato, pare più che giusto classificarlo come sport – uno sport per cui al momento non è stata stabilita alcuna regola e per cui i trofei sono distribuiti in maniera oltremodo informale».