Lo scandalo impeachment si allarga con il coinvolgimento del ministro della Giustizia Willam Barr e il segretario di stato Mike Pompeo, entrambi apparentemente complici diretti nel sollecitare informazioni compromettenti non solo dall’Ucraina sul rivale Biden (Pompeo era all’ascolto del telefonata Trump-Zelensky) ma ora pare pure dal premier australiano Scott Morrison (nonché, secondo il Washington Post, da ‘ambienti’ italiani e inglesi) sul conto nientemeno che di Cia e Fbi.

I contatti fra gli uomini del presidente e governi stranieri per nuocere alla stessa intelligence americana (con cui Trump ha avuto un rapporto conflittuale ancora prima di iniziare il mandato) sembrerebbero convalidare le accuse passibili di rinvio a giudizio per alto tradimento che la camera sta cominciando ad istruire.

Eppure l’impeachment suscita ancora forti patemi fra i democratici, consci che alla fine della fase istruttoria della camera si prospetta comunque il giudizio affidato a un senato che ben difficilmente voterà una condanna con la requisita maggioranza di due terzi.

L’impeachment rimane un atto politico e i numeri indicano che non possa “riuscire” fino in fondo (sono ben 20 i senatori repubblicani che dovrebbero decidere di ‘tradire’), il che è stato l’argomento addotto dalla speaker della camera, la democratica Nancy Pelosi, nel tergiversare fin quando gli equilibri del partito si sono incontrovertibilmente spostati verso l’autorizzazione a procedere .

Eppure anche chi sostiene che l’unica vera rimozione potrà avvenire solo tramite elezioni vinte senza ombre l’anno prossimo, non dovrebbe rammaricarsi che il presidente venga sottoposto a una procedura formale con il corollario di indagini e audizioni pubbliche, capaci di mettere agli atti l’illegalità e l’impunità endemica dell’amministrazione Trump.

Al di là di una eventuale “destituzione” insomma (comunque mai avvenuta nei tre precedenti storici: Andrew Johnson e Clinton furono assolti dal Senato, Nixon si dimise prima del “processo”), il migliore argomento a favore dell’impeachment rimane che è la cosa giusta da fare. Un atto costituzionale per cominciare ad arginare la criminosità dilagante attorno e dentro lo studio ovale.

Più che un preciso programma politico, la cifra fondamentale del trumpismo infatti è il suo modus operandi, il disinvolto bullismo e la prepotenza extralegale con cui persegue negazionismo, xenofobia, politica della crudeltà, razzismo e suprematismo.

Denunciare formalmente i sistemi di intimidazione della democrazia che definiscono il regime di Trump è dunque un atto fondamentalmente necessario di opposizione.

Ora che il processo è iniziato, dovrà seguire il suo corso ineluttabile, e ineludibile sarà la risposta che darà a una domanda sempre più urgente: esiste un modo per contrastare dialetticamente ed efficacemente il trumpismo e la sua miscela eversiva di disinformazione e polemica? Si può combattere un regime post democratico – e combattere in generale la marea di nazismo postmoderno – con gli strumenti della democrazia?

È una domanda a cui ad esempio il giornalismo non ha per ora trovato una risposta soddisfacente.

Il controllo sul potere esercitato dai liberi media di tradizione anglosassone è stato neutralizzato dalla demagogia twittata con la sua letale miscela di attacco diretto ed elogio dell’analfabetismo militante.

Questo impeachment è inevitabilmente accostato al Watergate, apoteosi di giornalismo virtuoso. Le innumerevoli analogie però tramontano dalla distanza che separa l’analogico dell’edicola dal digitale della socialsfera. E da una equivalente distanza “morale” lunga anni luce. Infatti invece del “non l’ho fatto” di Nixon, Trump dice “ebbene si l’ho fatto , e allora?”. La sua base concorda completamente, come per gli altri nazional-populismi mondiali, ha passato da tempo quel Rubicone etico, archiviandolo come inutile “buonismo”.

Ci sono milioni di Americani che non vedono nulla di male nello stile che Trump ha ereditato dal tutore maccartista Roy Cohn, affinato nel palazzinarismo e nella mondanità tabloid newyorchese e nella reality Tv.

Anche per questo il giornalismo investigativo non ha trazione – né potrà mai influire in questo caso come fece invece nel Watergate. Anche stavolta il Washington Post ha pubblicato le prime breaking news ma non è chiaro se esista il consenso etico minimo necessario allo scalpore pubblico, mentre il presidente minaccia platealmente la “gola profonda” di esecuzione e paventa la guerra civile se le cose si mettessero male.

L’impeachment mette nuovamente in luce la fondamentale questione epistemologica della politica post-ideologica e post-verità: quali avvenimenti sono in grado di spostare opinioni pubbliche votate al “cattivismo” e a una volitiva ignoranza rivendicata con orgoglio? Finora la risposta è stata inequivocabile: nessuno.

Adesso un’America allo stremo è giunta infine a mettere in campo il massimo meccanismo di tutela costituzionale, per tentare di arginare la metastasi trumpista nel corpo politico della nazione. Forse il contributo maggiore che potrà derivare dalla procedura di impeachment sarà di “visualizzare” la fine di Trump.

Se non dovesse bastare, dietro – oltre alle elezioni – c’è il baratro.