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Le Las Vegas nel deserto non sono più di moda

Le Las Vegas nel deserto non sono più di moda

Cina Ci vogliono circa 40 minuti per raggiungere dal centro della città la nuova stazione ferroviaria dell’alta velocità. Otto chilometri sembrano un’eternità imbottigliati nel traffico che soffoca Lanzhou, capoluogo della provincia […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 29 maggio 2019

Ci vogliono circa 40 minuti per raggiungere dal centro della città la nuova stazione ferroviaria dell’alta velocità. Otto chilometri sembrano un’eternità imbottigliati nel traffico che soffoca Lanzhou, capoluogo della provincia nord-occidentale del Gansu.

Quella che anticamente era conosciuta come la «città dorata», un fiorente polo commerciale lungo la Via della seta settentrionale, all’imboccatura del corridoio di Hexi utilizzato da commercianti e militari come principale via di passaggio dalla Cina settentrionale fino all’Asia centrale. Crocevia di popoli e culture, tra il V e l’XI secolo è diventata un importante centro di studi buddhisti, fino più tardi ad assorbire l’influsso musulmano con l’arrivo dell’Islam nel vicino Occidente.

Con il 78% della popolazione di etnia musulmana hui, Lanzhou conserva ancora l’antica atmosfera esotica e il suo ruolo di cerniera tra est ed ovest, grazie alla linea ferroviaria che collega la città alla regione autonoma del Xinjiang in «appena» 11 ore. Un destino curioso per uno dei centri urbani più caotici del paese. Per combattere traffico e inquinamento, nel 2014 il distretto centrale di Chengguan ha introdotto un servizio di bike-sharing che oggi vanta diverse centinaia di piattaforme. Ma i lavori di costruzione della metro, in corso da sette anni, procedono con una lentezza insolita per il paese dei grandi record. Colpa della natura, ci spiega una ragazza del posto, puntando il dito contro la morfologia del territorio.

Compressa tra due montagne e tagliata a metà dal fiume Giallo, la città sorge ai margini dell’altopiano del loess, una distesa interminabile di depositi limo-argillosi di colore giallastro creati dal vento, da cui il principale corso d’acqua della Cina settentrionale prende il suo nome. Pechino ha raccolto la sfida tempo fa, quando Lanzhou fu scelta dal governo cinese come testa di ponte del «Go West», la politica di sviluppo delle aree occidentali del paese lanciata nel 2000. Erano gli anni in cui costruire, costruire e costruire, era considerata la ricetta più efficace per spostare il baricentro della crescita dalla costa alle province interne, quelle più arretrate.

È così che, nel 2012, la precedente amministrazione Hu Jintao – Wen Jiabao ha avviato i lavori per la realizzazione della quinta guojiaji xinqu, un nuovo distretto urbano finanziato dal governo centrale composto da un aeroporto internazionale, una stazione dell’alta velocità, zone industriali e complessi residenziali.

A 30 chilometri dal centro cittadino, la Lanzhou New Area – la prima xinqu della Cina occidentale – sfidava la natura e ogni buon senso. Sono serviti circa 6.000 operai e oltre 3.000 escavatori per rendere la zona, un tempo costellata da centinaia di rilievi montuosi e villaggi, adatta allo scopo. Da quel terreno arido e argilloso sono spuntati un lago artificiale, oltre 600 chilometri di strada e centinaia di edifici a trenta piani raggruppati ordinatamente in blocchi di mezzo chilometro per lato, bordati dei classici alberelli smunti che gli urbanisti cinesi piazzano per dare colore alle altrimenti grigissime nuove città. Secondo il prospetto, entro il 2020 il distretto sarà dotato di cinque ospedali, 75 scuole e asili nido. Dieci anni più tardi, quando si attendono un milione di residenti permanenti, il Pil della xinqu dovrà essere triplicato a quota 270 miliardi di yuan. Obiettivi da guardare ancora con il binocolo.

Affitti a buon mercato e amenità «con caratteristiche cinesi» – compresi un parco Giurassico e una riproduzione della Sfinge egizia – non sembrano essere bastati a riempire le decine di migliaia di nuovi appartamenti. Le stime governative sono ferme attorno ai 100.000 abitanti, perlopiù impiegati statali e contadini rimasti senza casa dopo le demolizioni. Si fa presto a definirla una «ghost town».

Da quando nel 2013 la «Go West strategy» è stata ampliata e inserita nel progetto Belt and Road – una nuova cintura economica eurasiatica modellata sull’antica Via della seta – distretti industriali e hub logistici sono emersi in varie zone del Far West cinese. Ma la New Area del Gansu si discosta da esempi più noti quali Khorgos e Kashgar, zone economiche speciali istituite nel Xinjiang per rilanciare i rapporti economici con Kazakistan e Pakistan, rimaste pressoché vuote. Stando alle stime ufficiali, a Lanzhou il governo ha già investito 139 miliardi di yuan per la realizzazione di 325 progetti di vario genere, dall’industria turistica alla produzione automobilistica. Grazie alle agevolazioni fiscali, circa 500 aziende – per la maggior parte cinesi – hanno optato per stabilirsi nella xinqu, mentre quasi 4000 turisti hanno visitato il distretto tra gennaio e novembre 2018.

Sono numeri incoraggianti ma non sufficienti a scongiurare la sorte toccata ad altre «cattedrali nel deserto», spuntate come funghi con il boom delle costruzioni cavalcato da Pechino per domare la crisi finanziaria globale. Nel 2015, Yan Jiehe, Ceo di China Pacific Construction Corp nonché uno degli uomini più ricchi di Cina, ha fatto causa alle autorità cittadine per aver interrotto la costruzione di un progetto parallelo: «una La Vegas del deserto del Gobi» dal costo stimato di 20 miliardi di yuan. I lavori sono stati ufficialmente sospesi per preoccupazioni di carattere ambientale.

Ma la recente stretta sul debito dei governi locali e un’agguerrita campagna di arresti per corruzione all’interno dell’amministrazione municipale lasciano intravedere l’esistenza di problemi endemici e condivisi trasversalmente attraverso il paese. Nel 2016, un think tank governativo quantificava la capienza potenziale dei vari “distretti fantasma” a quota 3,4 miliardi di abitanti, oltre due volte il totale della popolazione cinese.

C’è chi suggerisce di accantonare le attrazioni kitsch per privilegiare la creazione di opportunità di lavoro, vero nodo gordiano delle nuove città cinesi. Secondo Wade Shepard, autore di «Ghost Cities of China», serviranno quindici anni perché la Lanzhou New Area raggiunga il suo pieno sviluppo. Nel frattempo, le priorità di Pechino sono cambiate. Da quando Xi Jinping ha assunto la presidenza, l’urbanizzazione ipertrofica degli ultimi trent’anni ha lasciato il posto a una pianificazione sostenibile.

Due anni fa, la New Area ha lanciato un piano di sviluppo quinquennale per realizzare una smart city in collaborazione con Huawei, il colosso tecnologico a cui Washington ha dichiarato guerra. Stando a quanto si apprende sul sito dell’azienda, il progetto comprende un parco industriale per il cloud computing, un «Silk Road information hub» e una rete di «soluzioni sanitarie intelligenti» che permette al 70% dei residenti di accedere alle proprie informazioni mediche online.

Secondo Huawei, il nuovo piano «smart» permetterà finalmente di risolvere i problemi che da sempre tormentano Lanzhou: scarsità di risorse, vulnerabilità del territorio e un’amministrazione inefficiente. Chiaro il messaggio? Le Las Vegas nel deserto non vanno più di moda.

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