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Le «lacerazioni» del rabbino capo di Roma

Le «lacerazioni» del rabbino capo di RomaTempio Maggiore. Celebrazioni per i 50 anni dall'arrivo degli ebrei di Libia a Roma. Nella foto Riccardo Di Segni – Vincenzo Livieri - LaPresse

Per Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, in Italia arrivano troppi migranti musulmani, arrivano e «non rispettano i nostri diritti e valori» e questa «migrazione incontrollata può provocare una […]

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 25 gennaio 2018

Per Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, in Italia arrivano troppi migranti musulmani, arrivano e «non rispettano i nostri diritti e valori» e questa «migrazione incontrollata può provocare una reazione di intolleranza; ci andremmo di mezzo anche noi, e forse per primi». L’ha dichiarato pochi giorni fa intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera.

Non era mai successo che un rappresentante autorevole dell’ebraismo ufficiale unisse la sua voce a quella dei tanti che in Europa gridano all’«invasione musulmana». È la prima volta non solo in Italia: persino in Francia e in Belgio, dove gli ebrei hanno subìto l’attacco diretto e sanguinoso del terrorismo islamista, le organizzazioni ebraiche sono sempre sfuggite alla tentazione islamofoba.

Di Segni aggiunge che sui migranti «noi ebrei siamo lacerati» perché «la fuga, l’esilio, l’accoglienza fanno parte della nostra storia e della nostra natura»; ma le sue parole restano inquietanti, tanto più per la connessione che sembrano stabilire: l’immigrazione islamica causa una reazione di intolleranza, e prime vittime dell’intolleranza rischiano di essere gli ebrei. Come dire che il razzismo non è colpa di razzisti ma dei loro bersagli.

Ciò che preoccupa di queste affermazioni è che risuonano pericolosamente con un’idea apparentemente «moderna» ed evoluta ma in realtà perniciosa, utilizzata come alibi da molte forze politiche anti-immigrati in tutta Europa: l’idea che l’immigrazione dai Paesi islamici vada fermata per difendere valori – la laicità dello Stato, la parità di diritti tra uomo e donna – che in buona parte dell’Islam sono calpestati. Questo sillogismo è veleno puro: trasforma un principio sacrosanto e persino ovvio – la non negoziabilità per noi europei contemporanei di parti essenziali della nostra «costituzione materiale» come la separazione tra Stato e Chiesa e la parità almeno formale di condizione tra uomo e donna – nel concetto esclusivista di cittadinanza europea per cui si è pienamente e legittimamente europei solo se si appartiene alla tradizione «giudaico-cristiana»; e al tempo stesso lascia intendere che tali princìpi siano connaturati a questo «dna», quando invece sono il frutto di processi lunghi, tortuosi, dolorosi.

La distinzione non è sottile, è la stessa che da secoli separa irriducibilmente il nazionalismo dal patriottismo: da una parte l’appartenenza «di sangue», di etnia, di religione, quella che fa invocare al candidato della Lega alla presidenza della Regione Lombardia Attilio Fontana la difesa della «razza bianca» e condanna lo «ius soli» come criterio di cittadinanza; dall’altra un’identità «progettuale», aperta a tutti coloro che condividono una base comune di valori e di diritti.

Questo tema investe inevitabilmente anche il dibattito interno al mondo ebraico sul presente e sul futuro di Israele. Recentemente il governo Netanyahu ha avviato un piano di espulsione massiccia di decine di migliaia di rifugiati eritrei e sudanesi, costretti a ritornare nei luoghi da cui erano fuggiti in cerca di libertà e di sicurezza.

La scelta ha sollevato le proteste di organizzazioni ebraiche in Israele e nel mondo: «In quanto discendenti noi stessi di rifugiati e parte di un popolo che fu straniero in una terra straniera – si legge in un appello a Netanyahu promosso dal network J-Call che riunisce migliaia di ebrei europei – riteniamo di avere un obbligo particolare verso i profughi, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica e religiosa». Israele di fatto non riconosce il diritto d’asilo, e oggi in Israele, a proposito di eguaglianza di diritti, accanto alla tragedia dell’occupazione illegale dei territori palestinesi che dura da mezzo secolo si consuma un altro dramma: la realtà di uno Stato in cui vi sono cittadini di serie A, gli ebrei israeliani, e di serie B, gli arabi israeliani.

In Israele prevale sempre di più una nozione di Stato ebraico di impronta nazionalista, che mina le stesse basi democratiche in un Paese dove i cittadini arabi e musulmani rappresentano oltre un quinto della popolazione.

Invece tra gli ebrei della diaspora resiste fortunatamente una visione dell’identità ebraica molto più aperta, vicina alle radici umanistiche, di sinistra del primo sionismo, e resiste anche – lo ha ricordato nei giorni scorsi la neo-nominata senatrice a vita Liliana Segre quando ha dichiarato: «Noi testimoni della Shoah saremo dimenticati come i migranti annegati» – un atteggiamento di naturale, autobiografica empatia verso i migranti.

Con le sue parole Riccardo Di Segni, capo religioso della più grande comunità ebraica d’Italia, sembra allontanarsi da questa sensibilità: da italiano e da romano orgoglioso delle mie origini bastarde, per metà ebraiche, lo considero un pessimo segnale.

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