Le guerre personali cambogiane
Cambogia I cambogiani preferiscono dimenticare la terribile pagina dei khmer rossi mentre per il governo se guerra è stata, fu quella della liberazione da Pol Pot. E il passato imbarazzante di cinesi e americani passa in secondo piano
Cambogia I cambogiani preferiscono dimenticare la terribile pagina dei khmer rossi mentre per il governo se guerra è stata, fu quella della liberazione da Pol Pot. E il passato imbarazzante di cinesi e americani passa in secondo piano
La frontiera cambogiana, ma sarebbe meglio dire le frontiere cambogiane, esibiscono soprattutto casinò. Alti, lucenti, accattivanti in un paesaggio di case basse e misere come al posto di confine di Brum dove, tra duty free e roulette, è sorto un polo di attrazione che fa varcare il confine ai tailandesi in cerca dell’ebrezza del tavolo verde, vietato nel regno Thai.
Da qui, se l’interesse non è quello di dilapidare il denaro, si prosegue per Battambang e poi verso Siem Reap, la meta più gettonata per le struggenti rovine di Angkor Vat, uno dei siti archeologici più affascinanti del pianeta.
Ma sulla strada da Brum a Battambang si passa inevitabilmente per Pailin, una provincia – con capitale la città omonima – di circa un migliaio di chilometri quadrati e 70mila abitanti. La provincia è tra le più piccole del Paese ma ha due caratteristiche principali: i soldi e una storia davvero strana.
I CASINÒ DI BRUM si trovano infatti nella provincia di Pailin dove prima – e in parte è ancora così – i soldi si facevano col commercio illegale di pietre e legname.
Gemme e tronchi andavano in Thailandia (Chantaburi al di là del confine è la città thai per le pietre) e il ricavato manteneva un piccolo esercito: quello dei khmer rossi rintanatisi qui dopo l’invasione vietnamita nel 1978.
Il paradosso è che oggi – in un Paese in cui la guerra per eccellenza è stata quella di liberazione dal delirio sociale di Pol Pot – Pailin è ancora il posto dove i gerarchi del vecchio regime possono godersi la vecchiaia. Un esempio: fino a cinque anni fa il governatore di Pailin – poi presidente del Consiglio provinciale – era un ex khmer rosso. Ma non era certo uno qualsiasi il generale di corpo d’armata Y Chhien, responsabile personale della sicurezza di Saloth Sar, il vero nome del fratello Numero Uno.
SU QUESTA SALÒ IN SEDICESIMO, abitata in gran parte da ex khmer rossi o contadini che beneficiarono dell’ultima roccaforte orientale (l’altra era più a Nord, verso Along Veng), è come se il governo avesse chiuso un occhio. Finita la resistenza khmer rossa negli anni Novanta (Pol Pot muore nel 1998), si son lasciate un paio di enclave per evitare grane a Phnom Penh.
I tronchi oggi non si commerciano quasi più, semplicemente perché non c’è più una pianta, ma le gemme abbondano. E così gli affari legati al casinò. Ma Pailin e Along Veng, dove si trovano le tombe di Pol Pot, Ta Mok e Son Sen, sono davvero due eccezioni. Due buchi neri per sistemare gli ultimi brandelli di guerriglia o i rappresentanti del Governo di coalizione khmer rosso, monarchico e nazionalista che aveva sede a Pailin: riconosciuto dall’Onu, sostenuto dai cinesi, ben sopportato dai thailandesi e assai ben tollerato dalle potenze occidentali nemiche storiche dei vietnamiti.
Che qui invece sono dei liberatori. I liberatori. La Cambogia, come il Laos, era una delle anticamere o se si preferisce delle retrovie, della guerra americana in Vietnam che doveva terminare nel 1975.
Prima, quella che un tempo era l’Indocina francese, aveva combattuto la sua guerra di indipendenza coloniale per poi trovarsi ad aver a che fare con l’ingombrante presenza americana.
GLI AMERICANI avevano bisogno di governi amici e dunque favorirono un golpe repubblicano in Cambogia, che doveva mettere nell’angolo il «principe rosso» Norodom Sihanouk, e – in Laos – il Pathet Lao, l’esercito di liberazione laotiano appoggiato dal Vietnam (lui pure col «principe rosso» Souphanouvong). Anche Hanoi aveva bisogno di amici e attraverso Laos e Cambogia passava la famosa pista di Ho Chi Minh per rifornire la guerriglia in Sud Vietnam. Fu quella pista, unita al timore dell’«Effetto Domino» – che avrebbe tinto di rosso l’Asia sudorientale – a scatenare le ire e le bomba americane.
LA CAMPAGNA DEI B-52 iniziò nel 1969 per finire nel 1973. Ma bombardamenti “tattici” risalivano al 1965. Era la guerra segreta di Nixon: oltre 500mila tonnellate di bombe. Oltre 100mila morti soltanto per i raid.
La guerra americana però non ha lasciato grandi tracce nella memoria ufficiale della Cambogia. Per Hun Sen, l’ex ufficiale khmer rosso che passò poi ai vietnamiti e che, dopo l’invasione del 1978, dai vietnamiti fu messo al vertice del potere, la vera guerra da ricordare è soprattutto una: la sua. A gennaio, Phnom Penh ha celebrato i 40 anni dalla fine del regime khmer rosso caduto nel 1979 dopo i tre anni di terrore con cui aveva governato.
Ma genocidario e folle che fosse quel regime, il mondo condannò i liberatori e Hun Sen finì con loro tra i paria.
L’INDISCUSSO LEADER cambogiano però non si era perso d’animo. E così, festeggiando con una mano la fine dei khmer rossi e perdonando con l’altra i quadri minori e i loro maggiori sodali (i cinesi), il capo dei capi – 35 di potere ininterrotto – ha rimodellato la Storia.
A sua immagine. Eppure sul periodo khmer rosso i cambogiano preferiscono stendere un velo d’oblio. «Troppo dolore – dice un insegnante straniero di Siem Reap – e lo si capisce da certi comportamenti. Molto difficile vedere un cambogiano con un libro in mano. Troppo vivo il ricordo di quando, se che eri colto a leggere, venivi ucciso all’istante».
C’è però la macchina di propaganda del regime. Che non dimentica, Esalta gli amici vietnamiti e il grande leader e dice anche che – adesso – la Cina è un ottimo compagno di viaggio. Hun Sen c’è appena stato in gennaio portando a casa promesse di investimenti, da qui al 2021, per circa 600 milioni di dollari.
Nel 2018 il premier cinese Li Keqiang era già venuto a Phnom Penh con un pacchetto di 19 accordi da firmare e nel 2016 la Rpc era comunque già diventata la più grande fonte di capitale da investimento nel Regno. Pechino val bene una messa. Per seppellire quell’aiuto a Pol Pot che Hun Sen preferisce dimenticare.
MOUN SINARTH è una delle guide del museo della guerra di Siem Reap. Entra nei dettagli mentre conduce un gruppo di stranieri a visitare i piccoli allestimenti con pezzi arrugginiti e mal conservati pur se si lavora a un ampliamento del sito.
Nulla a che vedere con Tuol Sleng, il museo del genocidio khmer rosso a Phnom Penh – curato e stravisitato – sulla lista di ogni tour nella capitale.
Tra i tanti carri armati russi Moun ne indica uno: «In questo, c’è morto un mio parente». Maledetta guerra.
Una guerra che anche qui è soprattutto quella contro i khmer rossi di cui sono esibite fotografie e armi acanto agli abiti verdi e neri che, nella coreografia di un’omogeneità purista, il popolo da rieducare doveva vestire nei campi di lavoro da cui spesso non si faceva ritorno.
Ma quando gli chiediamo cos’è stata la guerra per lui e da che parte stava, Moun si fa laconico: «Raggiunsi l’esercito nel 1979… avevo fame».
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