«Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò al riposo, perché in esso aveva cessato da ogni opera che egli aveva fatto creando negli altri sei» disse Mosè (Genesi 2.3). Quindi la domenica Dio riposa, mentre i banchieri no. Sarà per questo che andranno tutti all’inferno.

Non so se lo avete notato ma è la domenica, in genere a tarda notte, che il capitalismo moderno dà il meglio di sé, ovvero salva le banche con i soldi dei contribuenti (i soldi dell’uomo della strada, perché i milionari le tasse non le pagano, avendo scritto loro le regole fiscali).

Tre settimane fa il Financial Times, che si considera autorizzato a dire anche le verità scomode perché la plebaglia non lo legge, ha pubblicato il seguente grafico intitolato: «Questa è già una brutta crisi bancaria ma non è ancora grave come quella del 2008». Un titolo in cui la parola chiave era ancora.

E, infatti, l’altroieri Jerome Powell, il presidente della Federal reserve (la banca centrale degli Stati uniti) ha nuovamente aumentato i tassi di interesse dello 0,25%, immediatamente seguito dalla Banca centrale europea. Questo dopo aver passato la domenica a convincere amichevolmente la banca JPMorgan Chase a comprarsi la First Republic; tanto amichevolmente quanto può esserlo a Corleone la visita imprevista di due signori con la coppola e una doppietta in spalla. Le trattative fra le autorità di sorveglianza e JPMorgan non sono state facili: la Fdic (il fondo assicurativo delle banche) ha dovuto fornire, come incentivo, 13 miliardi di dollari dopo aver espletato quella che il comunicato definisce una «procedura di gara altamente competitiva». Da parte sua Jamie Dimon, l’amministratore delegato di JPMorgan Chase, ha dichiarato, sussiegoso: «Il nostro governo ha invitato noi e altri a intervenire e noi lo abbiamo fatto». No, non è Crozza, hanno scritto proprio così.

In omaggio alla trasparenza, i nuovi proprietari hanno poi scritto di aver rilevato «una parte consistente degli attivi di First Republic e alcune passività». E qui probabilmente la parola chiave è alcune.

Ovvero, hanno comprato la banca ma non i suoi debiti? E i debiti che fine hanno fatto? Giusto per avere un’idea, le tre banche fallite nel 2023 erano più grandi delle 25 banche crollate nel 2008. Per la precisione, nel 2008, il patrimonio delle 25 banche scomparse era 526 miliardi di dollari mentre oggi, gli assets di Silicon Valley Bank, Signature Bank e First Republic Bank ammontano a 532 miliardi.

Come si diceva, oggi l’insolvenza di molte banche non è un fenomeno occasionale ma strutturale: negli Stati uniti ne sono fallite tre negli ultimi due mesi. A cui bisognerebbe forse aggiungere il fatto che, nell’era del capitalismo-casinò, i salvataggi delle banche sono la tassa che tutti dobbiamo pagare perché pochi continuino ad arricchirsi. Il ministro del Tesoro americano Janet Yellen ha il suo bel daffare con le banche americane che barcollano: dopo Silicon Valley, Signature Bank e First Republic c’è una lunga lista di altri istituti che potrebbero andare a gambe all’aria e già questa domenica potrebbe toccare a PacWest, un’altra banca di medie dimensioni, le cui azioni mercoledì erano calate del 50%.

Perché? Semplice: uno studio del marzo scorso di Erica Xuewei Jiang e altri (Monetary Tightening and U.S. Bank Fragility) spiegava che «Il valore di mercato degli attivi del sistema bancario statunitense è inferiore di 2.000 miliardi di dollari rispetto al loro valore contabile». Traduzione per i non esperti: il rialzo dei tassi di interesse sta strangolando banche apparentemente sane,

È un problema esclusivamente americano? Non si direbbe.

Come scrivevamo su queste colonne in marzo, il governo svizzero aveva passato il sabato e la domenica 18-19 marzo a cercare qualcuno che si accollasse il Credit Suisse. Alla fine le autorità di sorveglianza hano convinto UBS fornendo, come torta di nozze per il matrimonio, una linea di credito da 100 miliardi di franchi svizzeri. La ministra delle Finanze Keller-Sutter aveva tenuto a precisare che non era un problema locale: «Gli Stati uniti e il Regno unito ci sono stati molto grati per questa soluzione… temevano davvero il fallimento del Credit Suisse».

In altre parole l’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve qualche mese fa, seguita dalla Banca centrale europea, ha trasformato il sistema bancario degli Stati uniti in una polveriera e nessuno sa bene cosa succederà quando i mozziconi accesi raggiungeranno i barili di esplosivo. L’ipotesi più probabile è un imminente credit crunch, ovvero la chiusura dei rubinetti del credito perché nessuno si fida più di nessuno.

Mentre procediamo allegramente di crisi bancaria in crisi bancaria, televisione e giornali ce li presentano come eventi isolati e imprevedibili, tipo l’eruzione del vulcano Mauna Loa o la caduta di un meteorite in Yucatan. È vero il contrario: le crisi bancarie fanno parte del paradigma di funzionamento del capitalismo attuale. Soprattutto la domenica. Ci risentiamo lunedì.