«Facevo cose stancanti per una ragazzina di 13 anni, lo puoi fare per qualche tot di giorni ma dopo un po’ crolli, non ce la fai. Non hai una vita sociale, nel senso non hai amici, non puoi uscire, quindi la tua adolescenza non te la puoi godere». F. è nata a Palermo, oggi ha 17 anni. La sua è una delle testimonianze raccolte in Non è un gioco, indagine sul lavoro minorile in Italia condotta da Save The Children. Il risultato è una stima di 336mila bambini e adolescenti che hanno avuto un’esperienza lavorativa prima dei 16 anni, l’età in cui diventa consentito dalla legge. Si tratta di circa un minore ogni quindici.

Parliamo di stime perché dati ufficiali non ce ne sono. Come non ce n’erano dieci anni fa, quando la stessa organizzazione ha realizzato l’ultima ricerca nazionale sul tema. Nel frattempo le cose non sono migliorate: i numeri sono rimasti simili, ma sono cresciute le occupazioni più dannose per crescita e benessere psicofisico.

Save The Children, insieme alla Fondazione Di Vittorio, ha somministrato tra dicembre 2022 e il febbraio successivo 2.080 questionari a ragazze e ragazzi tra 14 e 15 anni in 72 scuole, per ottenere un campione rappresentativo della popolazione studentesca in quella fascia di età. Il 53,8% di chi ha svolto un’attività di lavorativa lo ha fatto a più di 13 anni. Quasi la metà ne aveva di meno. Il 6,6% addirittura meno di 11 anni. Più di un minore su quattro, 58mila adolescenti, è stato coinvolto in occupazioni dannose per salute e percorsi scolastici.

Un terzo ha lavorato durante i giorni di scuola e uno su venti ha perso delle lezioni. Così inevitabilmente aumentano dispersione scolastica, problemi di apprendimento e bocciature. «Tagliavo verdure per i panini kebab, lavavo anche i piatti. Ho iniziato a frequentare la scuola per ottenere il certificato A2, ma a lavoro mi hanno detto che se tornavo a scuola non potevo più lavorare», ha raccontato M. che adesso ha 18 anni, vive a Roma e fa parte del 5% di lavoratori under 16 immigrati o figli di immigrati.

Per Raffaela Milano, direttrice dei programmi italiani ed europei di Save The Children, «il lavoro minorile deriva spesso da povertà materiale ed educative delle famiglie di provenienza e questo avvicina i ragazzi a contesti dove non hanno diritti e tutele». Il principale settore dove si registra lavoro minorile è la ristorazione (25,9%). Seguono negozi e attività commerciali (16,2%), campagna (9,1%) e cantieri (7,8%). Più della metà dei 14-15enni che lavorano lo fanno tutti i giorni o qualche volta a settimana. Circa uno su due per più di quattro ore al giorno.

I minorenni coinvolti dal fenomeno sono prevalentemente di genere maschile in tutte le mansioni tranne nei lavori di cura e baby sitting: qui le ragazze rappresentano rispettivamente il 65% e il 90% del totale. «Tali differenze sembrano richiamare in maniera predittiva l’impegno nel lavoro di cura, molto spesso non retribuito, a cui sono chiamate le donne adulte, in un circolo vizioso che rafforza divari di genere in ambito lavorativo e retributivo», si legge nello studio.

Le ragioni che spingono verso il lavoro minorile sono diverse: avere i soldi per sé (56,3%), aiutare i genitori (32,6%), interesse personale (38,5%). Per molti degli intervistati il giudizio sull’esperienza lavorativa è quasi sempre positiva. Oltre la metà la ritengono utile a imparare un lavoro.

Il rapporto è stato presentato alla presenza della ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone che ha manifestato l’intenzione di intervenire su «più linee d’azione con il piano integrato Garanzia infanzia», una strategia europea per i diritti dei più vulnerabili. In particolare: contrasto allo sfruttamento del lavoro minorile precedente ai 16 anni, e dunque illegale; inclusione scolastica e sostegno alla frequenza.