Nello scontro tra terapie cognitivo-comportamentali e psicoanalisi è in gioco la cura di sé e dell’altro come cultura del vivere. Il terreno dello scontro è l’autismo infantile: carico di significato simbolico, è diventato il luogo privilegiato dove imporre regole di comportamento a scapito del mondo interno e strategie di adattamento all’ambiente sociale capaci di mortificare processi di trasformazione psichica.

La terapia cognitivo-comportamentale, che guida per esempio il metodo Aba (Applied Behavioral Analysis) fa del soggetto sofferente un automa da addestrare a comportamenti corretti e socialmente accettabili, ma nonostante questa sua aberrazione, concepirla in competizione con la psicoanalisi è pericolosamente riduttivo.

A fronteggiarsi sono, infatti, due culture dell’esistenza tra loro opposte. Adattarsi agli standard del vivere sociale inseguendo schemi comportamentali che consentano di neutralizzare le tensioni, è il contrario dell’impegnarsi nella costruzione di un modo personale di essere che consenta di vivere in profondità desideri e emozioni. A riportare queste questioni all’attualità è un minaccioso intervento del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, che in occasione di un convegno a Caserta, il 18 gennaio, ha dichiarato: «Al massimo entro un mese approveremo la legge sull’assistenza ai soggetti autistici, che renderà ordinario in tutte le province campane il metodo terapeutico Aba». In gioco c’è una domanda sulla “qualità” della vita, che rappresenta uno scacco per chi vuole imporre il calcolo statistico come indicatore di verità. Il fenomeno dell’autismo è destabilizzante anche perché comporta un silenzio che afferra il nostro, e dunque si offre come un campo ideale per l’applicazione delle terapie cognitivo-comportamentali, forti dell’alleanza con l’invocazione di una causa genetica per ogni aspetto della nostra vita emotiva.

Per anni l’incidenza genetica dell’autismo è stata data all’80-90 per cento. Due anni fa il King’s College di Londra e il Karolinska Institut di Stoccolma hanno condotto una nuova ricerca, notevolmente più accurata delle precedenti e basata su un’ampiezza di casi mai considerata prima. Ne è emerso il fatto che nella genesi dell’autismo le cause ambientali contribuiscono in egual misura a quelle genetiche. La nostra conoscenza delle cause dell’autismo resta incerta: se le correlazioni psichiche sono innegabili, non sono tuttavia sufficientemente specifiche per consentire un inquadramento eziopatogenetico soddisfacente. Nelle situazioni derivate tanto da cause genetiche quanto da problemi psico-socio-ambientali è probabile che l’elemento patologico stia nella relazione tra i due campi, piuttosto che in loro alterazioni specifiche situate in uno di essi o in entrambi.

Dei bambini autistici e delle loro famiglie si può prendere cura senza pretendere di farli somigliare ai bambini «normali»: si può aiutarli a raffinare le loro personali sensibilità, spesso creative, a sviluppare aree di gioco, a far uso delle cose per esprimersi, senza comprimere i loro idiomi, ma tutto ciò richiede interesse, attenzione, devozione, non addestramento robotico a fini velletariamente normalizzanti. Richiede un «gruppo di lavoro» fatto di persone curiose, desideranti, portatrici di esperienze e saperi «culturali», non di tecnici del comportamento.

L’autismo dei bambini deve essere incontrato e inquadrato nella nostra concezione del mondo, perché lo interroga spietatamente a partire da una cultura del vivere che rifiuta di ridurre il proprio dolore a parametri «scientifici» quantitativi o a problemi «socialmente rilevanti». La volontà di estromettere la psicoanalisi si risolve in un imbarbarimento della «civiltà» di cura, e mira a colpire alcune sue acquisizioni che sono ormai un patrimonio culturale comune: la natura anonima, impersonale delle cause della sofferenza, implica una cura che lavori alla sua personalizzazione, alla sua soggettivazione e chiama tutti a una responsabilità condivisa. Quando le madri sono ferite nella loro femminilità, anche la maternità si fa molto vulnerabile, con conseguenze nefaste per i figli. Il non prendersi cura di quella ferita fa franare i fallimenti ambientali sulle spalle delle madri.

La percezione della famiglia come luogo conflittuale di rivalità e legami solidali, di miserie e passioni, di differenza e promiscuità implica una attenzione terapeutica che dei genitori non faccia capri espiatori, né li sollevi tout court dalle loro responsabilità, perché in entrambi i casi li si ridurrebbe a oggetti astratti, privi di esistenza reale.

Dietro la volontà di ridurre il mondo psichico, dunque la trama onirica che dà senso e forma alla materia desiderante del nostro legame con la realtà, a comportamenti codificabili e ripetibili, si intravede l’ombra di un «autismo» scientifico. Nel suo libro Che cos’è reale, Giorgio Agamben parla, avvalendosi di scritti di Majorana e di Simone Weil, del mutamento che la fisica quantistica ha impresso alla scienza con la sua concezione probabilistica, statistica della realtà. La scienza non cerca più di conoscere la realtà, ma «soltanto di intervenire su di essa per governarla».

Si fa presto a dire, con quella inconsapevole ipocrisia che ci libera del nostro senso di colpa senza restituirci alla nostra responsabilità, che l’autismo dei bambini è un «altro modo di essere». Certo che lo è e come tale va rispettato: non sappiamo come guarda un bambino autistico e cosa vede nel mondo, ma possiamo incontrare il suo sguardo, entrare con lui in contatto. L’ipocrisia sta nel dire «altro», per non farsene carico. Interpretiamo un autismo che non conosciamo, se non come fenomeno largamente indecifrabile, proiettando il nostro rifiuto di aprirci al mondo e conoscerlo, e così lo curiamo assimilandolo alla nostra desolazione «scientificamente» costruita, che comporta un ritiro dal mondo esterno e da quello interno, insomma una apatia del vivere.