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L’austerità e i limiti del piano Draghi

L’austerità e i limiti del piano Draghi

Scenari L’unico antidoto alla stagnazione e/o alla recessione è rappresentato dalla possibilità che a livello europeo si faccia comunque spazio un’ispirazione come quella che anima il piano Draghi. Per questo è vieppiù importante che si discuta delle sue carenze

Pubblicato circa un mese faEdizione del 10 ottobre 2024

Il Piano strutturale di bilancio settennale predisposto dal governo Meloni non è privo di regalie e prebende per i soliti noti, come l’estensione della flat tax (la quale consente, a parità di reddito, a un lavoratore autonomo di versare in tasse il 15% e a un lavoratore dipendente il 27%) o il ventunesimo condono per gli evasori fiscali. Ed è anche restrittivo nella spesa – con un taglio in termini reali che colpisce scuola, sanità, investimenti, a fronte dell’enorme spreco del ponte sullo Stretto – e soprattutto povero di respiro strategico e di profilo progettuale. La cosa appare tanto più grave se si considera che altri paesi, come la Francia e persino la Germania, si trovano in difficoltà finanziarie e quindi sono costretti ad adottare piani di rientro restrittivi analoghi a quello italiano.

Con uno aggravamento più che proporzionale delle conseguenze depressive sulla crescita della restrittività complessiva, date le interdipendenze tra settori, soprattutto per quel che riguarda importazioni ed esportazioni. In effetti questo aspetto, per cui la simultaneità dei piani di rientro di più paesi può operare come fattore restrittivo ulteriore, è stato poco considerato al momento di varare la nuova governance europea.

In questa situazione, l’unico antidoto alla stagnazione e/o alla recessione è rappresentato dalla possibilità che a livello europeo si faccia comunque spazio un’ispirazione come quella che anima il piano Draghi. Per questo è vieppiù importante che si discuta delle sue carenze, oltre che dei suoi meriti, il più rilevante dei quali è proporre un “quadro concettuale” di sviluppo che fa perno sugli investimenti, 800 miliardi di euro all’anno fino al 2030.

Di questi eventuali investimenti (indicati fin qui in modo abbastanza generico) bisogna fin da ora discutere, sia per quanto riguarda la loro natura e qualità, sia per quanto riguarda la strumentazione istituzionale con cui possono essere realizzati. Inserire, infatti, gli investimenti in linee programmatiche che puntino a indirizzare e a sostenere – tutte e tre nella stessa misura e nello stesso tempo – la transizione ecologica, quella tecnologica e quella sociale, non è uno scherzo. Certo non si può fare contando prevalentemente sul mercato e sulla concorrenza, la cui estensione ai beni sociali – come la previdenza – vuol dire inevitabilmente privatizzarli.

Inoltre, se si indica poco quanto alla strumentazione pubblica con cui gli investimenti verrebbero realizzati, c’è il rischio di fare affidamento prevalentemente sulle imprese private verso le quali la mole di investimenti immaginati verrebbe lasciata cadere come da un gigantesco rubinetto aperto. Perché, al contrario non immaginare di riprodurre, oltre le Agenzie esistenti, il modello dell’«impresa pubblica europea» su larga scala, come fu fatto con il progetto Galileo che tanti benefici apportò all’Europa e all’Italia? Perché non ipotizzare che la proposta di una «struttura pubblica europea» avanzata da Massimo Florio per l’industria farmaceutica, e verso cui il Parlamento europeo ha già espresso un certo favore, possa essere realizzata e estesa ad altri settori, altrettanto cruciali e altrettanto critici?

In assenza di indicazioni di questo tipo, sia il rapporto Letta che il rapporto Draghi lasciano l’impressione che, oltre la lodevole ispirazione a semplificare norme e burocrazie, la loro preoccupazione maggiore si fermi a tentare di veicolare verso gli investimenti il grande risparmio privato. Immaginando a tale scopo proposte discutibili, come dare vita a un terzo pilastro previdenziale privato per i cittadini europei (invece di spingerli, magari, a investire le stesse risorse nella previdenza pubblica, molto più sicura e tuttavia bisognosa di rafforzamento) o cercando limitazioni dei vincoli e delle regolazioni, il venir meno dei quali, però, aprirebbe nuovi spazi a una finanziarizzazione già estesa e deleteria.

Non possiamo dimenticare che la finanziarizzazione, sfruttando la benevolenza dei regolatori e gli spazi aperti dalle privatizzazioni, ha aumentato la complessità dei mercati finanziari – dando vita a una fauna di intermediari e a singolari piramidi finanziarie, trasformando la gestione del rischio in aggressiva assunzione del rischio – e ha alimentato l’enfasi sugli stock azionari, sulla creazione di valore attraverso di essi, sulla proliferazione delle stock options, attraverso cui il principio ispiratore dell’attività economica diventa il valore azionario non la produzione.

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