Laurent Gaudé e il polar del mondo nuovo
Noir Intervista allo scrittore e drammaturgo francese autore di «Cane 51», per e/o. Al centro della storia, un’indagine di polizia e una città da fantascienza, ma anche l’eco dei cortei con l’ombrello di Hong Kong per sottrarsi al riconoscimento facciale. «Può apparire come un romanzo di anticipazione, ma il libro è pensato come una riflessione sul presente»
Noir Intervista allo scrittore e drammaturgo francese autore di «Cane 51», per e/o. Al centro della storia, un’indagine di polizia e una città da fantascienza, ma anche l’eco dei cortei con l’ombrello di Hong Kong per sottrarsi al riconoscimento facciale. «Può apparire come un romanzo di anticipazione, ma il libro è pensato come una riflessione sul presente»
C’è un omicidio su cui indagare, il corpo martoriato di un uomo, quasi tagliato in due dalla trachea all’ombelico, è stato ritrovato «in mezzo al nulla di quella Steppa che si estende triste sotto la ex via di scorrimento veloce», nessun testimone né indizi. Potrebbe trattarsi di una comune indagine di polizia, ma così non è. Perché incaricato di far luce sul quel mistero è l’ispettore Zem Sparak, arrivato da Atene dopo che la GoldTex aveva acquistato la Grecia dopo il fallimento del Paese e che a Magnapoli, la metropoli-mondo sottoposta a un ipercontrollo tecnologico in cui si sono rifugiati gran parte dei sopravvissuti a quella crisi drammatica, ha scelto di vivere nella zona 3, scossa dalle piogge acide e da cataclismi atmosferici, mentre le altre due aree della città sono protette da una gigantesca cupola di vetro. Intrecciando il noir e la fantascienza con una implicita denuncia del modo in cui gli interessi economici delle grandi imprese soffocano Paesi e popoli, lo scrittore e drammaturgo Laurent Gaudé, già vincitore del Premio Goncourt nel 2004 con Gli Scorta, propone in Cane 51 (traduzione di Alberto Bracci Testasecca, e/o, pp. 228, euro 18) un romanzo di grande fascino e altrettanta forza che sembra scrutare un possibile prossimo futuro per fare in realtà luce sul presente. Non a caso, il protagonista della storia, Zem, vanta un passato nei movimenti libertari di Atene e affronterà la deriva insopportabile del «mondo nuovo» in cui si ritrova a vivere con la consapevolezza che in un tempo lontano uomini e donne potevano ancora vivere liberi e decidere della propria sorte.
«Cane 51» gioca con il poliziesco e la fantascienza per indagare su quella che si potrebbe definire come «la privatizzazione del mondo», come è nato il romanzo?
Il primo spunto mi è stato fornito dalla crisi del debito greco e dalla situazione che ha vissuto quel Paese a partire dal 2009. Mi sono trovato ad immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se quel contesto già gravissimo si fosse fatto ancora peggiore. Visto che quando si guarda alla forza finanziaria delle grandi aziende globali talvolta ci si trova a constatare che hanno dei bilanci che superano il Pil di qualche piccolo Paese, era possibile arrivare ad immaginare che dopo una grave crisi finanziaria una di queste realtà fosse acquistata da una grande società, tipo Gafam (l’acronimo delle maggiori multinazionali della comunicazione: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft, nda). Non credo che una tale prospettiva possa realizzarsi, perché non penso che questi gruppi economici abbiano alcun interesse a farlo, ma l’idea mi sembrava stimolante. Certo, è una prospettiva che dà le vertigini quella per cui una società privata ha lo stesso peso di uno Stato. Del resto, nelle nostre società l’opzione pubblica è maltrattata, mentre si procede a privatizzare ogni settore, sanità, scuola, perfino l’esercito, per non parlare del ruolo delle armate private, come Wagner o Blackwater, nelle nuove guerre. Perciò, volendo descrivere un mondo del futuro, non si può esimersi dal riflettere sul fatto che all’orizzonte si delinea una società privatizzata, in parte, come accade oggi, o del tutto, come ho immaginato nel romanzo.
Al centro della storia c’è la figura dell’ispettore Zem Sparak, un eroe riluttante, quasi un triste Marlowe proiettato in una realtà fatta di inquinamento, privatizzazione, tragica disparità sociale. Come è nato il personaggio?
In effetti, volevo che a guidarci nella scoperta di questo «nuovo mondo» fosse una figura che non vi apparteneva totalmente, qualcuno che ricordava ancora la realtà che l’ha preceduto e che per questo si sente ai margini del contesto oppressivo che si è invece imposto progressivamente. A Zem non piace ciò che lo circonda, non ne fa parte fino in fondo, non ha scelto di trovarsi lì e in quel ruolo. Per questo, esprime una sorta di resistenza passiva di fronte alla società che viene descritta nel romanzo. Inoltre, volevo che si trattasse di un immigrato: Zem è uno che viene da un «altrove», è arrivato a Magnapoli dalla Grecia, ma la Grecia non esiste più e quindi lui vive un doppia maledizione: l’aver dovuto lasciare il suo Paese e, allo stesso tempo, non poter tornare indietro. Per me era importante che nella storia emergesse la prospettiva del tempo che scorre, affinché i lettori non pensassero che avrei potuto farlo tornare in Grecia. Lui viene da un Paese che non esiste più e la consapevolezza di ciò crea intorno al suo personaggio un’aura malinconica, e questo soprattutto in rapporto con il mondo ambizioso in cui si trova a vivere e dove non c’è spazio per la malinconia.
Nella dimensione distopica in cui si svolge la vicenda descritta nel romanzo, si ha l’impressione che Zem coltivi la speranza a partire dalla memoria, vale a dire che sia il passato a offrirgli in qualche modo la possibilità di immaginare un futuro diverso. È davvero così?
Non so se questo gli permetta davvero di immaginare un futuro diverso, perché in effetti le prospettive sono talmente negative che non resta granché spazio per tali pensieri. Quel che è certo è che Zem riesce a costruirsi una sorta di rifugio attraverso le immagini in bianco e nero che fa riemergere dai propri ricordi ricorrendo all’Okios (una nuova droga tecnologica, nda) che circola a Magnapoli. Torna così a percorrere le strade della sua infanzia, quelle della città di Atene dove è nato e cresciuto. Non si tratta solo di assumere dei farmaci per evadere dalla realtà, quanto piuttosto di un gesto che via via finisce per assomigliare ad un atto di resistenza. È in questa prospettiva che si può parlare di speranza: come punto d’avvio per alimentare una capacità di resistenza.
Il romanzo descrive un universo oscuro che appare però piuttosto simile ad alcune delle cose che stiamo vivendo o abbiamo vissuto di recente: la guerra intorno a noi, il controllo sociale diffuso, la crisi climatica, le conseguenze della pandemia. Fino a che punto si può dire che «Cane 51» è anche frutto di tutto ciò?
Credo lo sia totalmente. Per molti versi penso di non aver inventato nulla, piuttosto ho cercato di guardare ciò che già stava accadendo nel mondo, mettere insieme tutti gli elementi e spingerli alle estreme conseguenze. Nella storia ho reso dominante ciò che nella realtà odierna è ancora in una fase embrionale. Così, ho riflettuto su delle cose che avevo visto, come le grandi manifestazioni che si sono svolte a Hong Kong, durante le quali le persone sfilavano sotto gli ombrelli per difendersi dal riconoscimento facciale. Una delle idee che mi ha accompagnato mentre scrivevo è che questo potesse presentarsi come un romanzo di anticipazione, anche se per me rappresenta principalmente una riflessione sull’oggi. Le derive che descrivo nel libro sono almeno in parte già presenti anche nelle società democratiche, dove operano però anche dei contropoteri che ci tutelano dal peggio o dall’autoritarismo. Almeno fino ad oggi.
Lei è uno scrittore e un autore teatrale, ma in questo romanzo sembra attingere soprattutto ad un immaginario cinematografico che mette insieme fantascienza e polar, come i francesi amano definire il genere poliziesco. A cosa si è ispirato?
Per me questo è un libro un po’ speciale: è la prima volta che i riferimenti cui attingo durante la scrittura sono più cinematografici che letterari. In genere, quando inizio a scrivere una storia, amo aver letto, o riletto, prima uno o due romanzi che possano rappresentare una bussola rispetto a quello che ho intenzione di raccontare. Ma nel caso di Cane 51 avevo in mente soprattutto dei riferimenti cinematografici, a delle pellicole poliziesche o di fantascienza. Credo sia per questo che una volta pubblicato, il libro ha mantenuto un respiro e uno stile che fa pensare al cinema. Inoltre, a pesare, penso sia stato anche un altro elemento: il fatto che lo scheletro della storia ruota intorno ad un’indagine, un elemento che rimanda al poliziesco e al noir. Quando parliamo di indagini, poliziotti e via dicendo, ognuno di noi è inondato di riferimenti cinematografici o alle serie tv. E, del resto, anch’io, che non sono un grande lettore di libri polizieschi, guardo moltissimi film e serie tv. E credo che in Cane 51 lo si possa intuire.
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