«Siete giornalisti? Allora andate verso le frane a far vedere il gran casino che c’è. Di noialtri quassù non parlano in molti, ma la situazione è disastrosa». A parlarci è un gruppo di anziani radunati intorno a un tavolo del bar di Vado, frazione di Monzuno, 3000 abitanti scarsi nell’appennino bolognese. Ci raccontano la loro esperienza senza interrompere la partita di briscola in corso, ma l’emozione che trasmettono è ugualmente forte. Due di loro sono sfollati, ospitati da parenti o amici. «Dicono che nei prossimi giorni potremo tornare a casa. Speriamo».

COLLINE E MONTAGNE sono il fronte dimenticato del nubifragio che ha devastato l’Emilia-Romagna. I media hanno mostrato le immagini drammatiche della pianura, dove i fiumi esondati hanno allagato case e città. Ma pochi documentano quanto è avvenuto più in alto, in centri piccoli e spesso resi irraggiungibili dalla tempesta. Sull’appennino sono le frane il vero nemico. La Regione ne ha contate più di mille, oltre 300 ancora attive. Non sono distribuite uniformemente: la gran parte è concentrata in soli 54 comuni.

Nel territorio di Pianoro, incastonato tra i colli bolognesi, scorre il Savena. È esondato nel fondovalle nei giorni in cui la pioggia colpiva con maggiore intensità. Percorrere la strada che lo costeggia significa osservare un campionario di effetti degli eventi meteorologici estremi. A valle si accumulano detriti fangosi, in larga parte tronchi e legname, segno delle esondazioni appena concluse. Guardando verso l’alto si vedono i costoni bruni delle colline. Sono le cicatrici delle frane, che si susseguono per chilometri quasi senza interruzioni. A poche centinaia di metri dal fiume sorge un ricovero per felini, solo nella campagna. «Non abbiamo avuto danni, ma gli smottamenti hanno isolato la struttura per alcuni giorni. Abbiamo temuto per gli animali lasciati soli» ci spiega il gestore.

Salendo di quota i segni del dissesto idrogeologico si moltiplicano: cartelli divelti, ammassi di fango ai lati della carreggiata, pezzi di asfalto crollati. A Marzabotto le frane sono state trenta. A Monzuno più di cinquanta. Qui in tempi normali passa la «via degli Dei», il popolare percorso escursionistico che collega Bologna a Firenze. «Ho un piccolo ostello in paese. Di solito serve a chi fa il cammino, ma in questi giorni sto ospitando un ragazzo della zona che è rimasto sfollato», ci spiega un uomo al bar del paese.

DA MONZUNO si raggiunge Vado tramite un tunnel strettissimo, in cui passa una macchina per volta. Appena giunti nella frazione l’impatto è fortissimo. Qui nella notte tra il 16 e il 17, all’inizio del nubifragio, una serie di frane ha tirato a terra il fianco della montagna al ridosso delle case nella zona chiamata Bolognina. Le abitazioni hanno resistito per puro miracolo. Una ha ancora il terrazzo completamente invaso di detriti, come se il bosco vi si fosse sgretolato sopra. Il piccolo quartiere è tuttora evacuato e inaccessibile. I residenti possono entrare per cercare di pulire i loro beni travolti, ma solo fino alle 18:00 di ogni giorno. Noi riusciamo a visitarlo accompagnati dalla protezione civile. Al lavoro ci sono due escavatori che raccolgono i detriti, mentre la strada che attraversa la frazione si riempie di polvere con l’ultimo sole.

«OGNI SINGOLO rivolo d’acqua è diventato una frana», spiega un volontario della zona. Ci racconta il terrore di quella notte, che l’intero paese ha passato con l’orecchio rivolto al rumore sinistro degli alberi che si spezzavano tutti assieme sotto la furia della tempesta.

Al bar del paese incontriamo un gruppo di anziani. Tra di loro la paura ha ormai lasciato spazio all’indignazione. «Qua ci sentiamo soli, le case ce le stiamo ripulendo dal fango per conto nostro. Dov’è l’esercito?» ci dicono. Chiediamo all’operatore della protezione civile che ci ha accompagnato nella zona colpita se, tra chi è impegnato nel ripristino dell’abitato, ci siano molti volontari. «Quasi tutti», è la sua risposta.

David Bianco è responsabile area ambiente dell’Ente Parchi Emilia Orientale. Il suo giudizio sul tema è netto. «L’appennino è geologicamente fragilissimo. La modalità insostenibile con cui abbiamo trattato i nostri territori e le scelte sbagliate del passato, come la politica dei condoni, hanno portato ad un effetto domino devastante. Ci sta venendo presentato il conto», ci spiega quando lo raggiungiamo al telefono. «È vero, negli scorsi giorni è piovuta un’enorme quantità d’acqua, ma è chiaro che abbiamo sbagliato qualcosa nel programmare, progettare e gestire. Bisogna attestarsi sui limiti del territorio. Dobbiamo avere la saggezza di riconoscere che laddove c’è una forte tutela e la natura si è potuta esprimere liberamente, registriamo le maggiori possibilità di reggere anche ad eventi che, come sappiamo, saranno sempre meno eccezionali».