L’assedio a Cuba e i nodi «indistricabili»
Qué linda es Cuba 1959-2019 L’uragano caraibico e l’uccisione del Che furono la leva del movimento del ’68
Qué linda es Cuba 1959-2019 L’uragano caraibico e l’uccisione del Che furono la leva del movimento del ’68
Usciamo dal ’68 e entriamo nel ’69, un cinquantenario e un sessantenario da ricordare per eventi memorabili, per chi non li ha vissuti, apparentemente diversi e invece molto intrecciati: la rivolta studentesca che animò, sulle stesse tematiche, in tutti i continenti e nello stesso breve arco di tempo, una intera generazione; e la rivoluzione vittoriosa dei «barbudos», che, dalla Sierra Maestra, marciarono sull’Avana liberando Cuba dalla dittatura di Batista e dai suoi padrini imperialisti.
Sebbene il secondo evento sia di dieci anni prima, c’è un nesso fortissimo fra i due: la ribellione studentesca sarebbe stata impensabile senza l’ispirazione venuta da quella sfida che apparve impossibile – e non lo fu – a un potere così potente.
Come mai, del resto, il sessantotto studentesco – che i media dell’establishment, e, ahimè, di qualche pentito, hanno finito per raccontare come semplice contestazione di prof e papà troppo severi in nome di spinello, sesso e rock and roll – è accaduto che ovunque maturasse sull’onda dell’indignazione per la guerra nel Viet Nam, e il razzismo? Perché accadde che da subito abbia cercato un rapporto con la classe operaia in nome di un’idea di libertà non meschinamente individualista?
Una rivoluzione come quella cubana, Davide che sfida Golia, non poteva comunque essere che una delle principali leve dell’insorgenza.
Fu infatti il crudele assassinio del Che, nel ’67,il momento scatenante della rivolta. Tuttora evocata perfino dalle magliette che a milioni ne ritraggono l’immagine.
Perché la rottura sessantottina consistette essenzialmente nel coraggio di prendere la parola, di riconoscersi come protagonisti della storia, di «alzare la testa»: la rivoluzione cubana, e poi le angherie cui fu subito sottoposta dagli embarghi infami, furono una spinta essenziale per chi sentiva lo stesso bisogno.
Anche per questo Il Manifesto, creatura nata dal travaglio sessantottino, la celebra sulle sue pagine in questo sessantesimo anniversario.
Nonostante i suoi difetti, errori, problemi irrisolti e spesso aggravati – che non abbiamo mai esitato a criticare – resta una grande tappa del difficile processo di liberazione dei popoli.
Si presentò subito come una rivoluzione speciale, diversa da quelle cruente e austere che avevamo conosciuto. (Forse per via del clima caraibico? O forse perché sembrava l’avventura di una banda di ragazzi?).
Ricordo la Conferenza della gioventù che si tenne a Mosca nel 1961, la prima che, per via delle aperture di Kruscev, venne aperta non più solo alle organizzazioni comuniste ma anche a quelle del Terzo mondo ancora in lotta per la loro indipendenza.
È lì che incontrammo i giovani cubani, la prima delegazione che arrivava fra noi. Fu una gioia: erano allegri, cantavano, suonavano, ballavano. La rivoluzione, dunque, poteva essere allegra!
Poi furono gli anni degli attacchi americani, della loro sconfitta alla Baia dei Porci, dell’entusiasmo per le conferenze all’Avana che rendevano per la prima volta protagonista il Terzo mondo. E poi le grandi riforme socialiste, le più memorabili quelle della scuola e della sanità.
Per l’America del sud, con le sue favelas e la sua miseria, Cuba diventò un faro: e Fidel il profeta assediato.
Perché l’assedio fu durissimo, in un’isola dove si produceva quasi solo canna da zucchero. Per la quale l’aiuto di una Unione sovietica pur ormai peggio che brutta, fu certo essenziale, sebbene implicasse l’importazione anche di pessime pratiche politiche.
Ma chi altri avrebbe potuto aiutarli? L’Europa non si azzardò se non con qualche piccolo strappo alla disciplina imposta da Washington al durissimo embargo. Via via inasprito, non attenuato.
Solo una fase di differenziazione, ma brevissima, durante la presidenza della commissione di Delors e del suo commissario alla cooperazione, il socialista francese Cheysson, nel momento più acuto delle guerriglie contro i dittatori finanziati dagli americani, prima in Nicaragua poi nel Salvador.
La risposta di Washington non si fece attendere, e si arrivò al varo della famosa legge Torricelli, che colpiva non solo le esportazioni delle proprie imprese verso Cuba, ma anche quelle di altri paesi del mondo che avessero osato farlo: una minaccia dura, perché comportava il divieto per le ditte che avessero disubbidito al diktat di esportare negli Stati Uniti.
Di questa vicenda ho un ricordo personale che voglio raccontarvi.
Sono stata per parecchi anni vicepresidente della «Delegazione permanente del Parlamento europeo per l’America centrale» che aveva l‘abitudine di incontrarsi una volta all’anno con il Dipartimento di Stato americano per discutere delle rispettive politiche nel Centro America.
In questo contesto incontrammo anche la commissione commercio estero del Congresso, presidente, per l’appunto, Torricelli (ahimè uno dei non pochi «onorevoli» italo americani). Al termine di un confronto non proprio amichevole, tutti si avviarono all’uscita dall’aula.
Io rimasi casualmente indietro e, restata sola, mi prese un’improvvisa incontenibile tentazione di rubare dalla tribuna della presidenza, la targhetta di metallo con su iscritto il nome Torricelli. Me la misi nella borsa come un trofeo di guerra.
I guai cominciarono quasi subito: l’ incontro successivo era proprio nel grande stabile della Segreteria di stato e per entrarvi bisognava passare attraverso un metal detector. Terrorizzata all’idea che il mio furto fosse scoperto, con conseguente incidente diplomatico grave per offesa agli Stati Uniti, cercai una toilette dove buttare l’oggetto, ma nell’atrio non ce n’era nessuna. Uscii nella strada sempre più preoccupata , ma questa era presidiata da plotoni militari: perché contemporaneamente erano, proprio lì, in corso negoziati israeliano-palestinesi. Se buttavo un oggetto metallico mi avrebbero sicuramente sparato. Tornai dentro disperata, chiusi gli occhi e passai il metal detector e miracolosamente non accadde nulla: la targhetta era di silenzioso alluminio e non di ferro.
Qualche mese dopo, quando la nostra delegazione si recò all’Avana, portai la targhetta Torricelli in dono a Fidel.
Rise, naturalmente (era un uomo molto spiritoso) e mi disse: «Ho ricevuto molti regali ma mai uno come questo, l’attaccherò dietro la mia scrivania».
Immagino l’abbia staccata quando a Cuba, dopo il 2000, è arrivato Obama, e i rapporti fra i rispettivi paesi sembrarono finalmente avviati alla normalizzazione. Ma forse Raúl l’ha riattaccata, visto che Trump ha ributtato tutto per aria.
Nonostante il durissimo periodo attraversato da Cuba, rimasta senza petrolio e altri prodotti di prima necessità dopo la fine dell’Urss, quando Fidel è morto c’è stata nell’isola una commozione popolare quale pochi capi di Stato hanno ottenuto.
Ha dimostrato quanto assurda sia stata la pretesa occidentale che il castrismo sopravvivesse solo grazie alla polizia. A reggere non c’era riuscito nemmeno il ben più rigido e attrezzato regime della Germania dell’est, figuratevi Cuba, che ha ospitato nell’ultimo decennio gigantesche manifestazioni di popolo senza alcun incidente per concerti jazz, papi e presidenti occidentali!
Perché i cubani sono tutt’ora fieri della loro storia, anche se i problemi di oggi sono forse più difficili di quelli affrontati alla Baia dei Porci: allentare le rigide misure iper-stataliste e così riaprire il varco all’ineguaglianza perché il mercato a questo fatalmente conduce?
Dare più potere a una società civile, come certo sarebbe necessario, pur essendo coscienti che Cuba è un microscopico paese che basta qualche ricco privato americano a ingoiarselo in un boccone?
Come resistere all’egemonia mondiale del consumismo più sfacciato una volta aperto al turismo?
Sono dilemmi difficili, più grandi di quelli che potremmo incontrare noi ove riuscissimo a fare la rivoluzione.
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