Se non ci fosse di mezzo la popolazione afghana, nel pieno di una drammatica crisi umanitaria, in un Paese governato di fatto dai Talebani, ci sarebbe da ricavarne un film comico. Come fare un pasticcio diplomatico in poche ore.

I protagonisti sarebbero i rappresentanti dell’Onu, che nel giro di 24 ore sono riusciti a mandare segnali politici contraddittori, lasciando gli afghani nell’incertezza: l’Onu vuole andarsene perché i Talebani discriminano le donne o vuole riconoscere l’Emirato islamico, per ammorbidirli?

ANDIAMO con ordine: il 19 aprile, la Associated Press riporta le parole di Achim Steiner, funzionario delll’Undp, il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo: «È giusto dire che in questo momento l’intero sistema delle Nazioni Unite deve fare un passo indietro e rivalutare la sua capacità di operare».

Un’allusione alla possibilità che l’Onu sia costretta a levare le tende, dopo la decisione dell’Emirato di vietare alle donne afghane di lavorare anche per le Nazioni Unite (circa 600 in tutto il Paese). La dichiarazione fa parte di una strategia più ampia per esercitare pressioni sui Talebani, affinché rivedano non solo quella decisione, ma il più ampio pacchetto di politiche discriminatorie contro le donne.

DELLA STRATEGIA fa parte anche un documento apparentemente più neutro, l’Afghanistan Socio-Economic Outlook 2023, reso pubblico il 18 aprile a Kabul dall’Undp, che registra una contrazione del 20,7% dell’economia dalla caduta della Repubblica islamica, nell’estate 2021. «Solo la piena continuità dell’istruzione delle bambine e la possibilità per le donne di dedicarsi al lavoro e all’apprendimento possono mantenere viva la speranza di un reale progresso», nota Kanni Wignaraja, direttrice regionale per Asia e Pacifico delll’Undp.

Senza le donne, sono a rischio anche gli aiuti umanitari. Nel 2022, l’Onu ha contribuito con 3,2 miliardi di dollari su un totale di 3,7 miliardi di aiuti esteri arrivati in Afghanistan. Quegli aiuti sono insufficienti a rimettere in sesto l’economia, ma sono indispensabili: «Il numero di poveri è cresciuto da 19 milioni nel 2020 a 34 milioni nel 2022».

IL LEADER dei Talebani e dell’Emirato, Haibatullah Akhundzada, sembra pensarla diversamente. Nel comunicato di pochi giorni fa con cui celebra la fine del Ramadan rivendica l’efficienza del nuovo regime, le riforme sociali e culturali in corso e il progressivo affrancamento dalla dipendenza dagli altri. Quegli “altri” che mostrano idee molto confuse. Il 19 aprile rimbalzano sui canali social di tutto il mondo, specie sui profili della diaspora afghana, le dichiarazioni fatte due giorni prima da Amina Mohammed.

Non una funzionaria Onu qualsiasi, ma la numero due del segretario generale Antonio Guterres. Nel corso di un incontro alla Princeton University’s School of Public and International Affairs, Amina Mohammed annuncia che Guterres ospiterà a Doha, l’1 e il 2 maggio, una riunione a porte chiuse di inviati speciali per l’Afghanistan provenienti da diversi Paesi. Potrebbe essere l’occasione per «trovare quei piccoli passi per rimetterci sulla strada del riconoscimento» dell’Emirato.

SI SCATENA un putiferio. La diaspora afghana insorge. I portavoce dell’Onu precisano, che non è in ballo alcun riconoscimento. Qualcuno ricorda che il riconoscimento è frutto di una lunga, complessa prassi procedurale e non di una decisione a tavolino. Ma il pasticcio è fatto. E l’Onu che barcolla è solo il simbolo di una comunità internazionale incapace di capire come comportarsi con i Talebani, autorità di fatto del Paese.