Cultura

L’arte, irriducibile antidoto alla guerra

L’arte, irriducibile antidoto alla guerraVista aerea delle rovine di Chersoneso e della cattedrale di San Vladimiro in Crimea

Patrimonio Intervista all’archeologo e storico russo Askold Ivantchik. Lo studioso è tra i sostenitori dell’appello dell’Unione Accademica Internazionale contro l’aggressione in Ucraina. «Il documento dell’Uai supporta i ricercatori di Kiev, in esilio o nel Paese. La maggior parte si trova in questa condizione e perciò ammiro il coraggio di chi resta». «Non rientrando nella lista dell’Unesco, il centro storico di Odessa, musei e collezioni, rischiano di pagare le conseguenze dei bombardamenti»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 23 marzo 2022

Lo scorso cinque marzo, l’Unione Accademica Internazionale (Uai) – fondata nel 1919, in seguito agli orrori della Prima guerra mondiale, al fine di promuovere una pacifica cooperazione tra ricercatori e studiosi per il progresso delle scienze umanistiche e sociali – ha diffuso un comunicato attraverso il quale condanna fermamente l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia.

Nell’esprimere preoccupazione per la sorte di migliaia di ricercatrici e ricercatori ucraini, l’Uai invita i suoi membri e le istituzioni accademiche del mondo intero a offrire loro sostegno per la continuazione delle attività scientifiche.

Nella nota si aggiunge che, sulla base dei diritti umani e dei principi di libertà e giustizia sociale, un aiuto deve essere accordato anche agli studenti e ai ricercatori russi costretti a lasciare il Paese per aver pubblicamente espresso contrarietà alla guerra. Tra i difensori dell’appello c’è l’archeologo e storico Askold Ivantchik, membro corrispondente dell’Accademia delle Scienze della Russia e dell’Istituto di Francia (Académie des inscriptions et belles-lettres).

Lo studioso Askold Ivantchik

 

«Il  documento diramato dall’Uai afferma chiaramente che devono essere supportati con priorità assoluta i ricercatori ucraini, siano essi in esilio o nel Paese. La maggior parte dei miei colleghi si trova nella seconda condizione e ammiro il coraggio di chi resta sotto le bombe a Kiev, Mykolaiv e soprattutto a Kharkiv, dove la situazione è particolarmente difficile, tra le altre cose anche per la tutela delle collezioni dei musei locali», dice al manifesto Ivantchik.

«Per quanto riguarda la Russia – prosegue lo studioso -, una lettera aperta di ricercatori che disapprovano l’attacco all’Ucraina ha raccolto più di ottomila adesioni. All’opposto, differenti dichiarazioni che appoggiano la politica di Putin hanno ottenuto poche centinaia di firme, perlopiù di responsabili amministrativi, la cui sincerità è da considerarsi dubbiosa. Occorre inoltre ricordare che, secondo una nuova legge, la manifestazione pubblica di una posizione anti-guerra è punibile in Russia con quindici anni di carcere. Persino l’uso della parola ‘guerra’ è interdetto. Si deve parlare di ‘operazione speciale’».

«Moltissimi russi, compresi quelli che lavorano nell’ambito della ricerca – continua Ivantchik -, hanno abbandonato d’urgenza il Paese lasciando dietro di sé i loro averi; tutto ciò che hanno costruito nella sfera professionale nel corso degli ultimi trent’anni è andato completamente in rovina. Per gli studenti e i dottorandi che sono rimasti nel Paese ma anche per coloro che sono riusciti a partire, la guerra rappresenta la distruzione di tutti i progetti di vita. Ritengo dunque che sia giusto destinare anche all’insieme delle persone sopra citate il sostegno auspicato per i ricercatori ucraini in esilio».

Cosa pensa delle sanzioni contro la Russia, definite dall’Uai «prigionie intellettuali», che prevedono il boicottaggio degli scienziati?

I ricercatori implicati nella cooperazione internazionale rifiutano quasi sempre la guerra. Essi costituiscono l’obiettivo sbagliato del boicottaggio nei confronti delle istituzioni russe, in quanto sono proprio loro e non le persone che le sanzioni vorrebbero realmente colpire a soffrire di più per le conseguenze di tali atti.

Talvolta, la ragione del boicottaggio viene spiegata o giustificata con una presunta «responsabilità collettiva», che si pretende coinvolga sia i seguaci che gli oppositori di Putin. In altre parole, tutti i russi dovrebbero pagare per le azioni del loro presidente, che hanno eletto e aiutato a mantenere al potere.

Tuttavia, solo chi non conosce il funzionamento di un regime autoritario e totalitario può ragionare in questo modo. Simile atteggiamento corrisponde, infatti, a una vera e propria colpevolizzazione della vittima. È come se qualcuno accusasse gli ebrei tedeschi di aver permesso a Hitler di accedere al potere.

Che dichiarazioni del genere vengano fatte dagli Ucraini è comprensibile: sono in guerra e la logica della guerra ha le sue regole. Ma è sorprendente che a proclamare analoghi propositi siano anche gli europei o gli americani: nella fattispecie si tratta di discriminazione in base all’origine ovvero di xenofobia.

Ma c’è un altro aspetto che mi preme sottolineare. Al termine di questa guerra, il popolo russo non sparirà – così come il popolo tedesco non è scomparso dopo la Seconda guerra mondiale – e bisognerà ristabilire relazioni normali con i russi e riportarli nella «famiglia» europea. Sono i ricercatori, gli artisti, le donne e gli uomini di cultura, le cui attività si svolgono per definizione su scala internazionale, che potranno rivestire un ruolo chiave in questo processo. Sarebbe dunque controproducente bruciare gli ultimi ponti e distruggere dei futuri alleati.

Un reportage di Pierre Alonso, pubblicato il 13 marzo sul quotidiano francese «Libération», racconta come le autorità di Odessa tentino di salvare il ricchissimo patrimonio della città. Non essendo iscritto nella celebre lista Unesco il centro storico non può beneficiare della protezione dello «Scudo Blu» (The Blue Shield), dispiegato – secondo quanto riportato da Alonso – dalla stessa agenzia Onu e dal governo ucraino attorno ai sette siti Unesco del Paese. Crede che la Russia potrebbe bombardare volontariamente monumenti e musei?

Purtroppo, sappiamo che l’utilizzo del dispositivo dello «Scudo Blu» non salvaguarda i monumenti in caso di conflitto armato. Ad ogni modo, non penso che le truppe russe possano usare i monumenti storici come obiettivi. Ne ignorano infatti l’esistenza, non distinguendoli dagli edifici ordinari.

Ciò non esclude, ovviamente, il pericolo di distruzione. Quando una città viene bombardata, come sta avvenendo attualmente a Kharkiv, a Mariupol e altrove, i monumenti possono facilmente subire dei danni. L’inquietudine è dunque legittima e ammiro l’impegno e la dedizione dei colleghi ucraini che si battono per preservare le memorie del passato.

Nel suo reportage, Alonso raccoglie anche la testimonianza della direttrice del Museo d’arte di Odessa Alexandra Kovalchuk, la quale rende noto che le collezioni del museo sono state condotte in un luogo sicuro affinché non vengano trasportate in Russia, come sarebbe avvenuto nel 2014 con le antichità della Crimea…

Non ho ricevuto notizie riguardo all’evacuazione delle collezioni del museo di Odessa e di altri musei dell’Ucraina. Ma, se ciò è stato davvero messo in atto, si tratta di una misura del tutto ragionevole.

Qualora a Odessa dovesse verificarsi un bombardamento su larga scala, anche gli edifici che ospitano i musei e le collezioni rischiano di pagarne le conseguenze. Non mi risulta invece un «piano» per dislocare in Russia gli oggetti esposti nei musei ucraini.

I sospetti inerenti a trasferimenti dalla Crimea nel 2014 non sono mai stati confermati. In particolare, l’Ermitage di San Pietroburgo, che è spesso menzionato a questo proposito, non ha esportato alcun oggetto da quell’area. I musei di San Pietroburgo e Mosca possiedono effettivamente reperti provenienti dal territorio dell’attuale Ucraina ma essi sono stati acquisiti nel XIX secolo, quando la regione faceva parte dell’impero russo, o in epoca sovietica.

Tuttavia, anche in riferimento a quest’ultimo periodo della Storia, la maggior parte degli oggetti rinvenuti negli scavi archeologici sono rimasti nei musei ucraini. Le autorità russe cercano di integrare la Crimea, che considerano russa, in tutti gli ambiti, particolarmente nella sfera della cultura e della Storia.

La strategia non consiste dunque nel saccheggiare i musei locali quanto piuttosto nel trasformarli, allo stesso modo dei monumenti storici, in centri dell’identità nazionale e storica della Russia.

Tale programma concerne soprattutto Sebastopoli (antica Chersoneso, ndr), che la stampa di regime definisce spesso la «Gerusalemme russa» e dove è in corso la realizzazione di un grande complesso museale e religioso. Non va inoltre dimenticato che i siti archeologici rischiano di sparire anche sotto la pressione dell’edilizia: scavi preventivi vengono eseguiti prima di ogni nuova costruzione ma non sempre in forma minuziosa e professionale.

In qualità di specialista dell’archeologia del Mar Nero, cosa teme di più per le future ricerche in Ucraina, una regione anticamente caratterizzata da opulente colonie greche?

Ho paura soprattutto per i miei amici e colleghi ucraini. La vita di molti di loro è minacciata da bombe e colpi di artiglieria. Fra i più giovani, alcuni combattono nelle forze armate. Quella per i musei e per i siti archeologici è una preoccupazione secondaria ma presente. Un missile si è abbattuto di recente, fortunatamente senza esplodere, nella necropoli di Olbia, il sito greco vicino a Mykolaiv, dove io stesso ho lavorato a lungo.

Sono certo che l’Ucraina non solo resisterà e manterrà la propria indipendenza ma sarà ancora più attraente per la comunità scientifica internazionale. I progetti internazionali che già esistono saranno portati avanti e ne nasceranno di nuovi.

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