Anarene, Texas, 1951: in un paese sperduto, legato all’industria del petrolio, e ora in declino, i pochi giovani del luogo ammazzano il tempo fra innocue trasgressioni e amori fugaci. Intorno, in cupo contrasto con i tentativi di resuscitare qualche guizzo di vita, un elegiaco sentore di rovina imminente nasce da quel panorama umano e geografico condannato all’aridità, vinto dalla polvere del deserto che ricopre ogni cosa. Nell’unico cinema del paese, uno dei pochi luoghi di svago rimasti, prima di chiudere per sempre resta un’ultima proiezione, Il fiume rosso, diretto da Howard Hawks nel 1948, uno dei più grandi film western di tutti i tempi: monumento all’epopea dell’ovest, è una ardente celebrazione del tradizionale ethos della frontiera, fatto di rudi amicizie virili, sprezzo del pericolo e della morte, cieca devozione ai propri obiettivi.

Si svolge entro questi confini il romanzo semi-autobiografico  scritto da Larry McMurtry e immortalato nel film che ne trasse Peter Bogdanovich nel 1971, dove l’atmosfera decadente di Anarene e i piccoli drammi dei suoi abitanti vengono persino esasperati; ma, allo stesso tempo, un’aura quasi epica circonda le vite dei suoi ragazzi, che – nonostante l’apparente irrilevanza delle loro esistenze – stanno lasciandosi alle spalle quell’epoca della gioventù, che era sembrata loro leggendaria, com’era mitica l’epoca del west, simbolica giovinezza della nazione tutta.

Le grandi passioni restano indietro, mentre l’ingresso nella più anonima vita adulta coincide con il conformismo degli anni Cinquanta. Tutt’altro che un esempio di conservatorismo statunitense, McMurtry evita di rifugiarsi nei fasti del western, così come si astiene dall’investire la frontiera di uno sguardo retrospettivo già pronto a sfruttare la sedicente perdita di un’arcaica purezza per paragonarla a un presente rammollito dalla decadenza: sua è, non a caso, anche la sceneggiatura dei Segreti di Brokeback Mountain, audace storia d’amore omoerotico fra cowboy, tratta dal celebre racconto di Annie Proulx.

Certo, se comparata all’opera del suo contemporaneo più celebre, Cormac McCarthy, la serie dei romanzi western di McMurtry appare sorprendentemente tradizionale: nel 1985 vince il Pulitzer con Lonesome Dove, acclamato all’epoca come il «grande romanzo western», giudizio che l’autore respinse al mittente. Avrebbe chiarito, decenni dopo, come ciò che aveva davvero in mente durante la stesura dell’opera fosse una sorta di «inferno del pioniere», ovvero una storia interamente votata alla cruda rappresentazione della violenza e da questa guidata. Ma lo stesso anno uscì anche Meridiano di sangue di McCarthy e fu subito chiaro come quelle pagine segnassero una sorta di olocausto del genere western, perché i presupposti stessi ne venivano rovesciati, addivenendo a una vera e propria apocalisse, che passava dalla messa in scena di un’orgia di morte, capace di far impallidire ogni atrocità escogitata da McMurtry. Ogni possibilità di redenzione era definitivamente negata al mito della frontiera.

Il successo di Lonesome Dove autorizzò l’autore a immaginare, e poi a scrivere, altri tre capitoli romanzeschi, articolati in una tetralogia che copre gli ultimi cinquant’anni dell’epica della frontiera, e si chiude significativamente proprio quando il governo americano dichiarò conclusa l’espansione verso ovest: la vocazione sostanzialmente nostalgica di McMurtry ne uscì rafforzata, sebbene lo scrittore americano si tenesse sempre al di qua da una retorica retriva.

Uscito originariamente nel 1993, il terzo episodio della serie – primo, però, in ordine cronologico – sarà in libreria per la prima volta in Italia martedì, con il titolo Il cammino del morto (traduzione di Margherita Emo, Einaudi, pp. 537, € 22,00): quelli che diventeranno i protagonisti di Lonesome Dove vengono qui introdotti, mentre muovono i primi passi in un ovest caotico per non dire efferato, ancora in via di assestamento politico. Come da confesso desiderio autoriale, l’ambiente in cui si muovono i personaggi è esplicitamente sovraccarico di violenze, al punto da trasformarsi – in certe scene – in una sorta di grottesca visione infernale premoderna.

Fra incursioni di Comanches sanguinari e non meno letali capricci della natura, in un deserto ripetutamente flagellato da tempeste di fulmini che sembrano espressione di una furia divina, il Texas di McMurtry ospita un nostos orrifico negli abissi della brutalità umana, che figura da simbolica, necessaria catarsi capace di dar vita all’uomo americano. Non a caso, i due protagonisti del romanzo, Gus McRae e Woodrow Call, sembrano imporsi come archetipi del carattere statunitense: McMurtry disse del primo che era un tipo «epicureo» e del secondo che era uno «stoico»; ma Gus sembrerebbe piuttosto l’incarnazione della esuberanza sconsiderata e tutto sommato innocente dell’Adamo americano, mentre Woodrow sembrerebbe impersonare quell’aspro pragmatismo che, secondo Frederick Jackson Turner, era uno dei caratteri dominanti della frontiera.

I due Texas Ranger vanno incontro ai rovesci del destino con la sopportazione eroica dei protagonisti dell’epos, affrontando una asperità dopo l’altra senza restarne sostanzialmente toccati. A entrambi calza alla perfezione la descrizione dell’eroe epico che «va in cerca di avventure – scrisse György Lukács – e a esse si consegna», senza mai mettere davvero in gioco la propria anima, e anzi trovando il proprio riscatto nel farsi già leggenda, se non simbolo. Tutto, nelle pagine del Cammino del morto pare aspirare all’universalità dell’archetipo. Ogni forma di hybris viene puntualmente punita, ogni turpitudine conduce alla dannazione tutta mondana derivata dalle disumane torture inflitte dai Nativi (descritte con abbondanza di dettagli e un malcelato gusto per il macabro) e tutto sommato si torna ancora alle inconcepibili punizioni intrinseche al sistema creato dal mito. Non manca la prostituta dai modi spicci ma dal cuore tenero, madre, amante e paradossale portatrice di verginità in un mondo di uomini spietati. Per parte loro, i Nativi non riescono a scrollarsi del tutto di dosso la connotazione diabolica affibbiatagli dai primi coloni europei.

Se in Meridiano di sangue McCarthy chiama i Comanches «una legione di orribili», nel suo romanzo McMurty mostra l’alterità degli indiani – sadici diavoli senza pietà – sfigurata nei toni del demoniaco. Unita alla mancanza di scavo psicologico, la qualità quasi materica di un linguaggio intriso di sangue, sudore, sabbia e polvere da sparo, evidenzia come, a prescindere dalle sue intenzioni, McMurtry lavori al recupero di una classica mitopoiesi della frontiera piuttosto che a una sua revisione. Senza lesinare sugli aspetti più sconvolgenti della vita nel West, ma allo stesso tempo celebrandone l’ottimismo e la grandeur, Il cammino del morto rispolvera le radici della nazione senza alcuna nostalgia romanticheggiante, ma anche senza metterne in dubbio la forza strutturale. Come il film di Hawks, ultima proiezione dell’unico luogo di svago della cittadina di Anarene, il romanzo di McMurty sembra così obbedire al tentativo di tenere in vita l’epica americana in un’epoca che del suo mito ha perduto l’interezza.