Laos, il nuovo oppio si chiama caucciù
Negli anni Settanta, quando il Laos era una delle retrovie della guerra del Vietnam, la capitale Vientiane era un possibile buen retiro per i soldati americani che, se non se […]
Negli anni Settanta, quando il Laos era una delle retrovie della guerra del Vietnam, la capitale Vientiane era un possibile buen retiro per i soldati americani che, se non se […]
Negli anni Settanta, quando il Laos era una delle retrovie della guerra del Vietnam, la capitale Vientiane era un possibile buen retiro per i soldati americani che, se non se la spassavano già nel bordello di Pat Pong in Thailandia, potevano frequentare le fumerie sparse nella capitale laotiana bagnata dal Mekong e dagli effluvi dell’oppio. Gli abili preparatori di un viaggio che tranquillizzava dalle paure della guerra, si servivano di lunghe canne di bambù su cui infilavano nel buco alla fine della pipa un liquido gommoso e nerastro che un fornelletto faceva sfrigolare per addensare nei polmoni la tradizione che da secoli aveva creato, anche grazie ai buoni auspici della Régie Française – il monopolio sugli stupefacenti delle colonie indocinesi – un esercito di tossicodipendenti.
IL LAOS ERA UN PAESE seduto allora sull’equilibrio precario tra rivoluzionari del Pathet Lao – l’esercito-partito alleato coi vietnamiti – e i lealisti del principe Souvanna Phouma, un liberale sceso a patti con gli americani. Il paradosso era che ai vertici del Pathet Lao c’era suo fratellastro Souphanouvong che, quando nel 1975 fu proclamata la Repubblica popolare del Laos, divenne Capo di Stato; faceva parte del Politburo del Partito Comunista, da cui si dimise per motivi di salute nel 1986.
Nonostante i rigori della nuova repubblica, il traffico d’oppio, che aveva uno dei suoi centri maggiori nel Nord del Paese, non si era fermato. Tanto che dieci anni fa, nel 2013, un rapporto dell’Onu stimava che Laos e Myanmar avessero prodotto 893 tonnellate di oppio – il 18% della produzione mondiale – con un aumento del 22% rispetto al 2012 e 2,7 volte in più rispetto al 2005, quando ne producevano 326 tonnellate. Era la rincorsa a pareggiare l’arrivo dell’eroina afghana, new entry favorita dalla guerra ai Talebani. Ufficialmente c’erano nel Paese ancora 15mila oppiomani e le pipe per fumare, di bambù, osso, avorio o porcellana, funzionavano a pieno regime, attirando anche qualche giovane occidentale che univa nel suo viaggio in Laos le volute di quel denso fumo dolciastro con la visita alle tribù della regione nordoccidentale, una delle zone più facilmente raggiungibili del famoso Triangolo d’oro, un’area di foresta pluviale tra Thailandia, Myanmar e Laos che aveva il suo cuore a Muang Sing, un centro che oggi dell’oppio ha solo un ricordo sbiadito. Che resta giusto nelle pipe che si possono comprare al mercato di Luang Prabang, meta per eccellenza del turismo nel Laos.
A MUANG SING si arriva da Luang Namtha, una cittadina che oggi si raggiunge anche in treno e che dista 60 chilometri da quella che una volta era considerata la tappa per eccellenza del contrabbando del triangolo dorato. Il vecchio principato di Muang Sing era stato incorporato nell’Indocina francese nel 1916 diventando l’hub, si direbbe oggi, del traffico di oppio. Traffico che dopo l’indipendenza dalla Francia (1954) subirà le intermittenti fluttuazioni del mercato che in questo o quel periodo faranno rallentare o rifiorire il commercio del frutto del papavero. Le cosa cambiano radicalmente agli inizi del secolo quando nel 2005 la sua coltivazione viene vietata e si dà priorità alla riduzione dell’agricoltura basata sul debbio (la cosiddetta tecnica del “taglia e brucia”) e alla sostituzione delle coltivazioni di papavero.
QUANTO AI FRIKKETTONI in cerca dei paradisi che piacevano a Thomas De Quincey (lo scrittore inglese che nel 1821 aveva dato alle stampe Confessions of an English Opium-Eater) ci stava pensando la dismissione del battello veloce che attraversava il Mekong facilitando l’accesso all’area (oggi ripristinato da un ponte) e decretando la fine dell’interesse turistico.
Oggi Muang Sing è l’ombra dei suoi fasti. Il “Museo tribale” è chiuso nonostante l’esposizione degli orari di apertura, e nel piccolo ufficio del turismo, pregevole costruzione tradizionale in legno restaurata con contributo tedesco nel 2005, il suo direttore allarga le braccia: «Dal Covid in avanti qui non viene più nessuno!». Il museo è chiuso, dice, perché manca il personale che si è adattato a fare altri lavori. Fa un cenno di assenso se indichiamo le piantagioni di caucciù e canna da zucchero che costellano l’intera regione.
IN EFFETTI, SPIEGA Avakat Phasouysaingam in una ricerca del 2021 per l’Università nazionale laotiana, «l’attuazione di queste politiche (debbio ed eradicazione dell’oppio, ndr) si è concentrata sulla produzione integrata di bestiame, sulle piantagioni di alberi e sulla produzione di colture da reddito per trasformare l’agricoltura basata sul debbio in un sistema agricolo permanente…». Si piantano hevea brasiliensis (l’albero della gomma) e canna da zucchero per combattere la produzione di oppio «descritto come un simbolo della primitività e dell’arretratezza degli altipiani». Il nuovo piano di sviluppo trasforma il paesaggio. Le aree coltivate a caucciù aumentano continuamente e nel 2020 in tutto il Laos risultano piantati più di 300mila ettari a hevea. Principalmente nel Nord del Paese. Ma c’è un però: la resa della monocoltura del caucciù va confrontata con redditi famigliari instabili, fluttuazione dei prezzi (una discesa vorticosa nel 2013) e l’insicurezza alimentare di «famiglie – spiega ancora Phasouysaingam – che praticano solo la piantagione della gomma». Inoltre, agli inizi degli anni Novanta, ricorda il World Rainforest Movement, si stimava che ancora circa l’80% dei laotiani facesse affidamento direttamente sulla foresta, uno spazio la cui riduzione crea conflitti.
GIÀ VESSATO DAL TAGLIA e brucia – una pratica per cui si incenerisce la foresta restituendo un suolo a chiazze aride per decenni – l’ambiente tende a degradarsi perché la monocoltura è si un impianto verde ma che alla lunga porta all’impoverimento del suolo e alla sua erosione. La fame di piantagioni invade anche la vasta area a parco protetto di Luang Nantha dove la foresta sembra combattere a fatica contro l’avanzata della monocoltura. Chi ne beneficia?
I cinesi soprattutto. File di camion attraversano il vicino confine con lo Yunnan: alla frontiera tra i due Paesi ne contiamo almeno una trentina stracarichi di canne da zucchero al parcheggio della quarantena doganale. I cinesi comprano e vendono: invadono il mercato locale con ogni tipo di prodotto, dalle moto al tessile di basso costo. Aprono ristoranti e alberghi e si costruiscono magioni gigantesche di dubbio gusto, con colonne alte una decine di metri e lampadari esterni che fanno invidia a Versailles. Difficile valutare la ricaduta sulla popolazione locale che sembra sopportare la presenza cinese come qualcosa di inesorabile. Se confondi un locale con un cinese, se la prendono: «Sono lao al cento per cento», dice un’imprenditrice locale che ci tiene a chiarire la nazionalità.
IL VECCHIO CUORE del Triangolo d’oro è adesso un centro del caucciù (la Repubblica popolare cinese consuma il 30% della gomma prodotta a livello globale) la cui lavorazione si fa in Cina. Uguale per la canna. Del resto i cinesi già controllano le diverse Special Economic Zones (Sez) tra cui quella appunto del Triangolo d’oro dove, forse non a caso, il caucciù viene chiamato “oro bianco”. Ha sostituito l’oro nero delle vecchie fumerie di Vientiane.
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