Giaime Pintor: l’antifascismo esistenziale, lungo viaggio in un attimo
Questioni di vita È un antifascismo prima di tutto esistenziale quello vissuto dall'intellettuale-soldato Pintor che si ritrova tanto a far parte della Commissione italiana di armistizio con la Francia
Questioni di vita È un antifascismo prima di tutto esistenziale quello vissuto dall'intellettuale-soldato Pintor che si ritrova tanto a far parte della Commissione italiana di armistizio con la Francia
Volgere lo sguardo verso i segni profondi che l’armistizio dell’8 settembre 1943 lasciò su una parte, affatto relativa, della generazione nata e cresciuta sotto l’egida del regime significa riannodare i fili delle esperienze vissute nel «lungo viaggio attraverso il fascismo», così vividamente raccontato da Ruggero Zangrandi, di quella gioventù che si trovò nel tornante più drammatico della nostra storia nazionale.
In ragione delle complessità, delle inquietudini e degli slanci che transitarono dentro il corpo delle forze vive della società (in un’Italia da poco postfascista ma ancora monarchica) la figura di Giaime Pintor racchiude, a ottanta anni dalla sua morte, un punto di caduta e lettura della transizione italiana verso l’uscita dalla dittatura.
Il viaggio di un osservatore partecipante che muove dall’interno della crisi di regime e dello Stato fino all’alba di quella Resistenza che lo vide ventiquattrenne caduto partigiano, su una mina tedesca, il 1 dicembre 1943 a Castelnuovo al Volturno mentre attraversava le linee nemiche nell’ambito di una missione Alleata.
La traiettoria biografica di Pintor ed i suoi scritti raccolti ne Il sangue d’Europa, curati da Valentino Gerratana nel 1950 e assurti a classico della letteratura resistenziale, restituiscono la figurazione di un antifascismo nato tra le maglie dissidenti del regime (Pintor fu attivo e sottile autore di articoli sulle testate Primato, Oggi e Letteratura tra il 1939 e il 1942), cresciuto dentro il fuoco della guerra mondiale e fiorito nella sua pienezza di pensiero e azione nelle ore del crollo dello Stato monarchico successive all’annuncio dell’armistizio, quando Pintor accorse a combattere la battaglia di Porta San Paolo a Roma contro i nazisti mentre il re e i generali fuggivano abbandonando la capitale al suo destino.
Una resa incondizionata connessa al collasso delle istituzioni, in primis le Forze Armate da cui Pintor si separò definitivamente con la scelta della lotta e dell’impegno anziché dell’attesismo compenetrato negli alti gradi del regio esercito.
Una linea di faglia che separa e redime l’organicità di chi, per ragioni di età, aveva vissuto fin dalla nascita il fascismo come regime naturale delle cose. Quel momento dirimente esprime la cessazione della sovranità dall’alto imposta dalla monarchia e da Mussolini ai sudditi e porta all’emersione di una sovranità dal basso rappresentata dalla «scelta» che ogni donna e uomo della Resistenza affronta secondo il proprio libero arbitrio. D’altro canto l’attimo in cui si compie quella storia accantona le rassicuranti rappresentazioni di matrice crociana del fascismo come «invasione degli Hyksos» squadernando invece l’inquietudine dell’avvento delle camicie nere come gobettiana «autobiografia della nazione». Su questo lo sguardo di Pintor è lucido nelle temperie degli eventi: «la caduta dell’impalcatura statale scoprì le miserie che ci affliggevano, scoprì che il fascismo non era stato una parentesi ma una grave malattia e aveva intaccato quasi dappertutto le fibre della Nazione».
È un antifascismo prima di tutto esistenziale quello vissuto dall’intellettuale-soldato Pintor che si ritrova tanto a far parte della Commissione italiana di armistizio con la Francia (poi dentro il cuore nero di Vichy) quanto ad essere componente del cenacolo einaudiano con Cesare Pavese, Felice Balbo e Massimo Mila. Un sentire che permea gran parte dei giovani partigiani di quella estrazione sociale. Una strada che li porta a recidere non solo il nodo della mitopoiesi fascista con cui sono stati allevati ma anche i vecchi retaggi culturali della separatezza dell’intellettuale dalla materialità del presente per come si manifesta loro di fronte. È la crasi definitiva che unisce le nozioni di pensiero ed azione. «A un certo momento -scrive Pintor- gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve saper prendere il suo posto in un’organizzazione di combattimento».
È difficile non ritrovare in queste riflessioni una simmetria diretta con gli stati d’animo di gappisti di medesima origine culturale come il Rosario Bentivegna, che si forza all’uso della violenza per il tramite della «etica della responsabilità», o come Giorgio Labò che, fucilato dai fascisti il 7 marzo 1944 a Forte Bravetta, lascia al suo comandante Antonello Trombadori il riverbero dei suoi pensieri: «Molti dei nostri amici non sanno che noi non difenderemo sinceramente e davvero un valore tradizionale nella nostra posizione d’intellettuali, altrimenti che scontando l’esperienza viva del popolo nelle sue lotte e nelle sue sconfitte per gli obiettivi della rivoluzione. Solo così noi troveremo e daremo ai nostri mestieri l’unico contenuto possibile, l’unica funzione reale».
Una misura che si ritrova nel periodare di Norberto Bobbio attorno alla figura di Eugenio Colorni (uno dei padri del Manifesto di Ventotene caduto a Roma durante la guerriglia di Liberazione della città) allorché muovendo dal rapporto conflittuale tra «ragione critica e fede morale -scriveva il filosofo torinese- per un uomo come Colorni la politica è azione ed è azione guidata, più che da una dottrina o da una concezione generale della società, da una scelta etica».
Lo stesso Pintor è da subito consapevole che è l’urgenza del presente a mettere in discussione tutto il mondo passato: «Senza la guerra -scrive al fratello Luigi- io sarei rimasto un intellettuale. Soltanto la guerra ha risolto la situazione».
Da questo magmatico divenire di storie individuali e storia generale affiora più che un’immagine iconica una traiettoria personale di Pintor che si risolve in dimensione collettiva. Non retorica esemplarità ma nesso concreto con la vita materiale e, dunque, eredità in fondo scomoda per l’oggi. Da qui forse hanno tratto origine piccole e sterili polemiche attorno alla sua figura che altro non hanno rappresentato, come scrisse Rossana Rossanda, un ronzio «noioso come la pioggia».
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