Una delle principali differenze tra il lavoro della magistratura e quello della storia sta nella visuale che esse adottano. La prima, la magistratura, parte da lontano per stringere il campo visivo fino al verdetto sul fatto. La seconda, la storia, al contrario, muove dal fatto e progressivamente allarga lo sguardo per restituire il contesto in cui esso si colloca.

Tuttavia la sentenza di condanna per la strage del 2 agosto 1980 emessa dalla Corte d’Assise di Bologna contro l’ex neofascista Paolo Bellini; il capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel e l’ex amministratore di condominio Domenico Catracchia, non chiude una vicenda ma apre un passaggio che rende visibile uno spaccato centrale della storia della Repubblica.

La condanna di Bellini ci fa volgere lo sguardo sulla traiettoria biografica di un personaggio che, già assassino del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, ha attraversato indenne la militanza eversiva in Avanguardia Nazionale; la latitanza in Brasile ed il rientro in Italia sotto falsa identità; l’affiliazione alla ‘ndrangheta ed il reclutamento nel ROS dei carabinieri guidato dal colonnello Mario Mori che lo infiltrò nella mafia negli anni delle stragi ’92-‘93.

La condanna di Catracchia riporta gli occhi sul condominio di via Gradoli a Roma, da lui amministrato per conto di società immobiliari afferenti al SISDE, nato nel 1977. In quel luogo stabilirono il proprio covo i neofascisti dei NAR nel 1981 (quella strada era divenuta nota nel 1978 per aver ospitato la base di due dirigenti di vertice delle Brigate Rosse – che vi avevano affittato un appartamento, ma prima, nel 1975 – durante il sequestro di Aldo Moro e la sua detenzione a via Montalcini).

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La condanna di Segatel racconta dell’eterna contrazione che la democrazia italiana sembra condannata a subire ogni volta che ci si inoltri nel ventre profondo degli apparati di forza dello Stato, rappresentati da alcuni «convitati di pietra» del processo come il capo dell’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato (deceduto) oppure dai vertici del SISMI come l’ultracentenario generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte (deceduto) già condannati, con Francesco Pazienza e Licio Gelli, per il depistaggio compiuto nel 1981.

La strada percorsa fino alla sentenza racconta di più: conferma le responsabilità dei neofascisti Mambro, Fioravanti e Ciavardini (condannati in via definitiva); liquida la narrazione di un presunto «spontaneismo» dei NAR inserendoli all’interno del quadro operativo della P2 di Gelli; stringe solidi nessi con la condanna di primo grado del 2019 di Gilberto Cavallini (ex Ordine Nuovo) rilevando il variegato arcipelago di relazioni politico-istituzionali che ne permise azione, protezione e impunità.

Emerge, soprattutto, il quadro storico-politico entro cui si colloca quella che era stata rappresentata (attraverso le lenti distorte dei depistaggi e delle false «piste internazionali») come la più indefinita delle stragi sul piano del movente.

Il massacro terroristico di Bologna rappresenta l’esito di un carsico processo eversivo che trova il suo spazio di maggiore agibilità nell’arco temporale che va dalla morte di Aldo Moro del 1978, con la conseguente crisi politico-sistemica che ne conseguì, allo scoppio dello scandalo P2 del 1981 che concluse la fase ascendente della loggia massonica di Gelli. Il proponimento di un tale articolato movimento reazionario fu quello (una volta archiviata la prospettiva della «solidarietà nazionale» di stampo moroteo e del «compromesso storico» di Berlinguer) di portare a soluzione tanto la «questione comunista» quanto la «questione costituzionale» attraverso un’involuzione di carattere regressivo non più immaginata con un colpo di Stato militare sul modello greco ma, secondo i dettami del Piano di rinascita democratica gelliano, con lo svuotamento ed il sovvertimento «dall’interno» del sistema politico nato dal patto costituzionale antifascista del 1948.

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Infine la strage racconta di soldi. Indicati in quel «documento Bologna», sequestrato a Gelli dopo il suo arresto a Ginevra del 1982, rimasto sepolto tra le carte del processo relativo a quell’autentica convulsione dell’Italia repubblicana che è stato il fallimento del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Milioni di dollari utilizzati dai vertici della P2 per pagare l’esecuzione neofascista della strage ed il successivo depistaggio operato da uomini (iscritti alla loggia) come D’Amato e il senatore del Msi, Mario Tedeschi. Figure che, per l’ampiezza delle loro relazioni, richiamano direttamente le responsabilità politiche dei vertici dei partiti di governo dell’epoca.

È la consapevolezza dell’esistenza di questa «anima nera» della Repubblica che ci viene restituita, dopo anni di indagini, dal responso di Bologna. Sollecitandoci a non considerare chiusi i conti con la stagione del terrorismo stragista nato dal «cuore di tenebra» dello Stato.

* Storico. È stato consulente della Procura Generale di Bologna per l’inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980