L’ambiguo «dopoguerra» dell’erede del Califfato
Elezioni in Turchia L’Ue tace sulla repressione dell’opposizione e dei curdi, sulle centinaia di migliaia di persone in carcere dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, sui giornalisti dietro le sbarre
Elezioni in Turchia L’Ue tace sulla repressione dell’opposizione e dei curdi, sulle centinaia di migliaia di persone in carcere dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, sui giornalisti dietro le sbarre
L’erede della sconfitta del Califfo Al Baghadi è proprio lui, Erdogan. «Risolveremo la crisi siriana sul campo», ha dichiarato prima del voto. La Turchia intanto fa «ciaone» alla Nato, conferma l’acquisto dei missili dalla Russia e annunciando che Santa Sofia tornerà moschea, raccoglie la bandiera delle istanze islamiste dalle rovine dell’Isis.
Che per altro in questi anni ha ampiamente sostenuto, come confermato dall’«ambasciatore dell’Isis» in Turchia, Abu Mansour, in una lunga conversazione riportata da Homeland Security Today, un sito diretto dall’ex segretario alla sicurezza di Bush junior, Michael Chertoff. Alla vigilia di un incerto e rischioso voto alle amministrative di oggi, segnato dalle difficoltà economiche, finanziarie e da una forte crisi occupazionale, il presidente turco ha provato a compattare l’elettorato più devoto all’Islam religioso con quello che ormai è un classico: la riapertura al culto islamico di Santa Sofia, l’ex basilica bizantina, trasformata in museo nel 1935 da Atatürk. Ankara ha poi annunciato l’acquisto del sistema missilistico S-400 dalla Russia durante la visita di Sergei Lavrov ad Antalya mentre gli Usa si preparano a bloccare la consegna dei caccia F-35 nella cui produzione è coinvolta anche la Turchia, membro della Nato dal 1953. Con una crescita economica quasi ferma, la lira sotto pressione e gli effetti dell’afflusso dei migranti siriani, usati per ricattare l’Unione europea, Erdogan ha cercato di sfruttare l’onda emotiva provocata dall’attentato terroristico contro le due moschee a Christchurch. Non solo ha fatto circolare il video della strage, a Gallipoli, in occasione delle commemorazioni della battaglia del 1915, cui parteciparono con gli inglesi anche reparti australiani e neozelandesi, ha dichiarato: «I vostri nonni vennero qui e li abbiamo rimandati indietro nelle bare. Non abbiamo dubbi: rimanderemo a casa nelle bare anche voi nipoti». Ci sarà un giorno in cui, riscrivendo le cronache di questi anni, che qualcuno si domanderà come mai gli stati dell’Ue non abbiano detto o fatto nulla nei confronti Turchia di Erdogan.
E quando vorranno trovarne le ragioni sarà per constatare che i Paesi trainanti dell’Unione, insieme agli Stati Uniti, sono stati suoi complici e allo stesso tempo l’hanno preso in giro con la chimera dell’ingresso in Europa.
Non c’è ovviamente soltanto la questione di profughi siriani ma anche quella del Golan e di Gerusalemme. Erdogan ha gioco facile a presentarsi come un leader perché l’Europa non si oppone davvero al riconoscimento americano di Gerusalemme capitale dello stato ebraico o all’annessione del Golan, contro ogni risoluzione dell’Onu. Anzi si divide e la Romania, che ha la presidenza di turno del Consiglio Ue, si accoda alle decisioni americane. Ormai, euro a parte e consorzi di armamenti compresi, non si capisce neppure perché stiamo insieme, visto che non esiste una politica estera comune nemmeno su fatti eclatanti come questi.
L’Europa non dice nulla sulla repressione dell’opposizione in Turchia, sulle centinaia di migliaia di persone in carcere dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, sui politici, i giornalisti e gli intellettuali dietro le sbarre con condanne all’ergastolo, sui curdi in Turchia e in Siria: non pervenuta.
Gli europei e i loro governi vivono una contraddizione perenne nei confronti di Erdogan e del Medio Oriente, come se non nascessero lì guerre devastanti cui noi stessi contribuiamo come volonterosi carnefici di un’intera regione.
Tutto questo lo racconta – dal suo punto di vista naturalmente – l’ambasciatore del Califfato Abu Mansour al Maghrabi, un ingegnere marocchino che arrivò in Siria del 2013. «Il mio lavoro era ricevere i foreign fighters in Turchia, pagare il network locale per i trasferimenti e tenere d’occhio il confine turco-siriano, C’erano degli accordi tra l’intelligence della Turchia e l’Isis. Mi incontravo direttamente con il Mit, i servizi di sicurezza turchi e anche con rappresentanti delle forze armate. La maggior parte delle riunioni si svolgevano in posti di frontiera, altre volte a Gaziantep o ad Ankara. Ma i loro agenti stavano anche con noi, dentro al Califfato». L’Isis, racconta Mansour, era nel Nord della Siria e Ankara puntava a controllare la frontiera con Siria e Iraq, da Kessab a Mosul: era funzionale ai piani anti-curdi di Erdogan e alla sua ambizione di inglobare Aleppo.
E quando il Califfato, dopo la caduta di Mosul, ha negoziato nel 2014 con Erdogan il rilascio dei diplomatici turchi ha ottenuto in cambio a scarcerazione di 500 jihadisti per combattere nel Siraq. «La Turchia proteggeva la nostra retrovia per 300 chilometri: avevamo una strada sempre aperta per far curare i feriti e avere rifornimenti di ogni tipo, mentre noi vendevamo la maggior parte del nostro petrolio in Turchia e un quantitativo inferiore anche ad Assad». Mansour per il suo ruolo era asceso al titolo di emiro nelle gerarchie del Califfato. «Erdogan, con le sue aspirazioni islamiste, ha lavorato con noi mano nella mano», dice Mansour dalla carceri irachene.
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