Nella politica, nello sport e così in mille altri ambiti la disparità tra i sessi ha marchiato a fuoco la storia delle nostre civiltà. Si tratta di una guerra ancora aperta e combattuta tutti giorni da chi, per prima e sulla propria pelle, vive le contraddizioni di una società malata di formalismi e sorda alle parole di chi grida fuori dal coro. Come per la squadra femminile delle All Reds Rugby Roma, parte integrante della polisportiva che da quasi un decennio ha rilanciato un percorso di sport popolare sul prato dell’ex Cinodromo della capitale, a Ponte Marconi.

Da tre giorni le reddine hanno lanciato sul web una petizione indirizzata al presidente del Coni Giovanni Malagò, chiamato direttamente a rispondere del fatto che nel 2015 «le donne sono ancora escluse dal professionismo sportivo. Vuole il Coni rappresentare l’ultimo presidio della diseguaglianza di genere nel nostro paese?». 48 ore e oltre 10mila firme, segno che le atlete della femminile All Reds hanno aperto una riflessione azzeccata sul differente status di “professionisti” e “dilettanti” che, ai sensi della legge 91/1981, viene definito dalle singole federazioni sportive in base alle direttive emanate dal Coni. «A 34 anni dall’entrata in vigore di questa legge, però, il Coni non ha ancora chiarito cosa distingue l’attività professionistica da quella dilettantistica e la mancanza di un chiarimento ha determinato una grave discriminazione, penalizzando le donne», si legge nel testo della petizione (ospitata sul portale change.org). A ciò si aggiunge il fatto che una risoluzione del 2003 emessa dal Parlamento europeo «chiedeva di assicurare alle donne e agli uomini pari condizioni di accesso alla pratica sportiva e sollecitava gli stati membri a sopprimere nelle procedure di riconoscimento delle discipline di alto livello la distinzione fra pratiche maschili e femminili», rendendo ancor più imbarazzante l’inadeguatezza della legge e più grave il fatto che questa sia rimasta lettera morta.

«Come donne e tesserate della FIR ci rivolgiamo direttamente a Coni, nostro interlocutore naturale», ci racconta la rugbista Chiara Campione, «ma il discorso che poniamo in essere esula il mero ambito sportivo. Prima di tutto è la dignità di ogni donna ad essere toccata da questa situazione, per questo il nostro obiettivo è al contempo sensibilizzare e lanciare un segnale forte». Ancora più nette, invece, le parole di Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, l’associazione italiana per la tutela delle sportive, e membro dell’ufficio stampa del Telefono Rosa. «La questione è abbastanza chiara: alle donne che praticano sport è negato il diritto di avere accesso e fruire dei benefici prescritti da una legge. Si tratta di un vizio profondamente anticostituzionale», ha raccontato al manifesto. «Se non si prova a cambiare queste politiche come ci si può presentare ai grandi appuntamenti sportivi che affollano le agende delle varie federazioni?».

Insomma, la via d’uscita da questa impasse sembra passare da un impegno congiunto tra istituzioni sportive e politiche che devono necessariamente coordinarsi su un piano di confronto che guardi allo sport come ad un vero e proprio settore di lavoro, regolamentato però da un quadro normativo da rifondare. Una considerazione fatta propria anche da Josefa Idem, senatrice del PD, ex Ministro delle Pari Opportunità del breve governo Letta e campionessa mondiale e olimpica nella specialità del kayak individuale. «Siamo di fronte ad una situazione che necessita di riforme strutturali. Lo sport femminile è relegato in un recinto senza che sia tenuta conto delle specifiche peculiarità di un’atleta donna, su tutte la maternità – anche se poi il Coni l’ha regolata con l’articolo 29 dei principi fondamentali degli statuti delle federazioni, nel 2007. Io ad esempio ho fatto un mondiale mentre ero in incinta: ho sperimentato sulla mia pelle l’assenza di un quadro normativo di riferimento. C’è un grande lavoro da fare. Io in Senato ho già detto di ripartire da un’indagine conoscitiva che risponda ad una semplice domanda: cosa significa lavorare nello sport?».

In effetti non si può certo negare che le pari opportunità nello sport non siano un problema secondario. Su oltre 4,5 milioni di tesserati tra le 45 federazioni sportive nazionali, solo il 24% sono donne (Coni, Lo sport in Italia, 2014); tra le sportive italiane, secondo uno studio PublicaReS, il 77% non si definisce economicamente indipendente considerando la sola attività sportiva, il 29% riceve contributi economici una tantum e solo il 14% può contare su una remunerazione continuata. Per non parlare poi degli aspetti discriminatori rispetto agli uomini. Il 45% delle atlete ritiene di non essere valutata in maniera paritaria rispetto ai “colleghi”, il 21% denuncia di aver subito vere e proprie discriminazioni e sono innumerevoli i casi in cui si lamentano premi vittoria dimezzati o più rispetto a quelli che le federazioni pattuiscono con gli uomini impegnati nella stessa specialità. Anche a livello amministrativo (per quanto riguarda incarichi e responsabilità) la situazione non è delle più floride. Nessuna delle presidenze delle federazioni è al momento affidata a donne, dei 18 membri della giunta nazionale del Coni solo 3 sono donne (le medaglie Fiona May, Alessandra Sensini e Alessia Turisini), mentre nel CdA della Coni Servizi S.p.A. (la partecipata al 100% del Ministero dell’Economia, il “braccio operativo” del Coni) siede una sola donna, Giovanna Boda, già direttrice generale del MIUR.

«Personalmente sono un sostenitore del fatto che la legge 91 va cambiata: è un legge retrograda, antiquata e che oggi non è più in linea con i tempi che viviamo», ha dichiarato venerdì il presidente del Coni Giovanni Malagò, raggiunto al termine della conferenza stampa organizzata per l’accordo strategico biennale tra Coni e Alitalia. «Sostengo da tempo la necessità di una nuova legge quadro; il governo conosce bene le nostre istanze e queste saranno oggetto nei prossimi mesi di un confronto tra noi e le rappresentanze politiche preposte alla discussione di questa materia. Certo, la petizione delle rugbiste romane è indirizzate a me e non posso che essere concorde con la considerazione che questa solleva. Rimane il fatto che io non sono un interlocutore legislativo, ma per quanto in mio potere posso tentare quella che viene chiamata moral suasion».

Sempre nel pomeriggio di venerdì ha inoltre preso parola Valeria Fedeli, Vicepresidente del Senato, che sul sito del Partito Democratico ha diffuso una nota stampa in cui, oltre a dichiarare di aver firmato la petizione, ha dichiarato che «è assurdo che ancora oggi i regolamenti del Coni escludano le donne dal professionismo sportivo, per questo è importante sostenere la petizione con la quale le giocatrici della femminile degli All Reds Rugby Roma si rivolgono al Presidente Giovanni Malagò, chiedendo giustamente di aggiornare le norme sportive coerentemente con i principi costituzionali, nonché con il più avanzato diritto europeo, in materia di pari opportunità tra donne e uomini», specificando infine come «il dilettantismo imposto dai nostri regolamenti – conclude Valeria Fedeli – è una grave discriminazione che danneggia le molte atlete talentuose del mondo sportivo italiano, in tutte le discipline, ed è bene che tutte le istituzioni partecipino attivamente all’eliminazione di una simile ingiustizia nei confronti di donne e ragazze».

Un successo innegabile, dunque, per le donne All Reds, visto che in un paio di giorni il dibattito che hanno riaperto si è trasformato in un vespaio capace di mettere istituzioni politiche e sportive davanti alle loro responsabilità, facendo appello ad un generale senso di civiltà smarrito nel corso di queste decenni di inattività legislativa. Insomma, per le reddine è un punto davvero importante, visto che mai meta fu più ambita di questa.