Mentre non passa giorno senza che ci vengano scodellate notizie scandalistiche sull’Intelligenza Artificiale, rimane stupefacente la superficialità del dibattito che si è acceso e via via infiammato sul tema. Ciò e vero sia per i suoi spaventati detrattori, sia per i suoi entusiasti sostenitori che spesso vagheggiano sulle benefiche ripercussioni delle tecnologie, descritte come frutto di un capitalismo benevolente artefice di una vita che ci renderà tutti liberi dal lavoro.

Viceversa quel che nell’immediato urge sottolineare è che il lavoro – la sua quantità e qualità, le sue relazioni con la innovazione e la conoscenza, il suo nesso con le politiche macroeconomiche e microeconomiche –, dopo decenni di oscuramento teorico e di invisibilità politica provocati dal neoliberismo (con connessa frammentazione, precarietà, atipicità), rischia di nuovo di sparire dai radar. Con penalizzazioni che sarebbero terribili per i giovani e per le donne.
Per tenere saldamente il lavoro sotto i riflettori bisogna fare due cose.

La prima è porre su basi analitiche serie la considerazione dell’Intelligenza Artificiale (la tecnologia Chat GPT è una soltanto delle sue forme, basata su modelli di linguaggio di grande formato che supera il machine learning e il deep learning, quanto a capacità di elaborazione e di predizione, e che in brevissimo tempo, mai sperimentato con precedenti innovazioni, ha raggiunto i 100 milioni di utenti).

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La seconda cosa è chiedersi in modo drastico se la destinazione dell’innovazione all’Intelligenza artificiale sia l’uso migliore che se ne possa fare e se, più in generale, l’innovazione, invece di essere lasciata alle forze di mercato (che peraltro in molti passati cicli innovativi sono venute ben ultime, ben dopo le spinte impresse dall’operatore pubblico), non possa essere diretta “a monte”, diretta per esempio verso finalità più nobili che non il risparmio di lavoro, quali la creazione di lavoro e la soddisfazione di bisogni sociali insoddisfatti. Questa era del resto la grande, più vera preoccupazione di Keynes: “L’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni”

Non si tratta, infatti, soltanto – e pure sarebbe molto! – di controllare ex post le tecnologie per attutirne ed evitarne distorsioni, pericoli, usi manipolatori, ricadute alienanti, violazioni della privacy. Si tratta di immaginare e ideare ex ante tecnologie e cicli innovativi totalmente alternativi a quelli dominati dalle grandi corporation, come suggeriva Anthony Atkinson (e come cominceremo a fare in un seminario promosso per il 14 giugno da La Rivista della Politiche Sociali).

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Non esiste un’innovazione – nemmeno la digitalizzazione – “buona” a prescindere. La retorica dell’esogenità e della naturalità dei fenomeni è spesso utilizzata per sostenere la causa della neutralità degli stessi. Ma non possiamo non vedere l’intenzionalità esplicita e determinata con cui l’operatore pubblico e i soggetti sociali possono guidare l’innovazione, come nel caso della sfida ingaggiata dalla Darpa (agenzia americana pubblica) quando ha offerto un premio da un milione di dollari per un’automobile senza guidatore, il cui risultato diretto è stata la Google’s driverlesscar. E se questa “direzione” intenzionale è stata possibile per l’automobile autoguidata perché non dovrebbe essere possibile per la generazione di altre innovazioni, più socialmente utili, orientate a soddisfare grandi bisogni insoddisfatti, a partire dalla creazione di lavoro, senza soggiacere al suo obnubilamento nella jobless society?

Questo è, infatti, il punto: se anche fosse vero – e non lo è – che evolviamo verso la “società senza lavoro”, la nostra responsabilità è di ideare, inventare, immaginare un modello di sviluppo alternativo strutturato su una “piena e buona occupazione” con cui alimentare la “fioritura” dei territori, dell’ambiente, delle città, dell’istruzione, della sanità, dei beni sociali e culturali, dei bambini e degli adolescenti.

La sfida è concepire l’innovazione e le nuove tecnologie non come un processo inintenzionale, imperscrutabile, naturalisticamente determinato, ma come un processo intenzionalmente e strategicamente articolato e modellato in percorsi alternativi che sfruttino le grandi “biforcazioni” in atto. Di straordinaria “biforcazione” aperta attualmente di fronte all’evoluzione dell’Intelligenza Artificiale, e non solo, parla Daron Acemoglou il quale, da una parte ritiene erronea la presunzione che l’indirizzo già assunto dal suo avanzare – tutto a risparmio di lavoro e con impieghi esclusivamente destinati a riconoscimento facciale, trattamento linguistico, ideazione di algoritmi sostitutivi della cognizione umana, invece che a soddisfare bisogni sociali insoddisfatti quali l’istruzione, l’educazione, la cura – sia l’unico possibile, dall’altra elabora perfino formulazioni matematiche ed econometriche per mostrare la plausibilità e la fattibilità di ipotesi di “direzione” alternativa.