La montagna è per tutti? Sì, ma bisogna ascoltarla
Polemiche Le pose in vetta, la ricerca del wi-fi, la fretta e la velocità. Il turismo di massa riproduce ad alta quota le dinamiche di ogni giorno. E la passeggiata è fine a se stessa
Polemiche Le pose in vetta, la ricerca del wi-fi, la fretta e la velocità. Il turismo di massa riproduce ad alta quota le dinamiche di ogni giorno. E la passeggiata è fine a se stessa
Oggi la montagna è di tutti. Non più solo degli alpinisti, degli escursionisti appassionati, di chi vi lavora e di chi vi abita. È proprio di tutti. Di chiunque possa recarsi in un qualsiasi enorme scatolone di cemento delle grige zone industriali, sovrastato dall’insegna Decathlon e si possa permettere il lusso di acquistarvi a poco
prezzo materiale “tecnico” di ogni sorta. Causa e conseguenza del farsi moda del trekking supportata dall’offerta di un mercato saturo, sovraccarico, la cui proposta
contempla senza dubbio l’utile, di qualità, ma altrettanto il futile, il superfluo, la montagna appare accessibile a tutti. All’apparenza, appunto. Dietro un consumismo dai colori sgargianti, si vorrebbe continuare a vedere il ritorno alla cosiddetta wilderness di thoureauniana memoria, ma di wild resta ormai ben poco. Fuga dal basso, da un universo cittadino soffocato da una spietata urbanizzazione, da una pianura intossicata dai veleni. Ma questa fuga corre veloce. E corre sino alla vetta: orologio al polso, scarpette leggere, zaino pressoché inesistente, abbigliamento aderente, striminzito e iper leggero. Perché la fuga è anche e soprattutto da se stessi.
Si entra in una agonistica – meglio se anche adrenalinica – competizione con un io spesso sofferente, frustrato, che ambisce al proprio riscatto vincendo una sfida irreale, effimera.
Dove dovrebbero autoimporsi la calma e la lentezza, infuriano la fretta e la velocità; dove ci si aspetterebbero condivisione e solidarietà, spesso ci si scontra con lo stesso individualismo e la stessa solitudine di quando ci troviamo nella nostra automobile, imbottigliati nel traffico. Le cime sono beffarde: sogghignano, nel loro impercettibile moto di un tempo geologico, scherniscono l’affanno di chi tanto corre per raggiungerle. Poi, il tempo di farsi un selfie con alle spalle la croce – la cui simbologia non sarebbe esattamente quella di un trofeo da conquistare – e precipitarsi in un ritorno che non può mancare di fare tappa in un rifugio per rifornirsi di… wifi!
Ai luoghi ormai non si rivolge più l’ascolto silenzioso e devoto in cerca della verità, ma la curiosità mobile e ciarliera, assetata di sempre nuovi spettacoli. Il luogo non è più una voce enigmatica ma veritiera, ma un oggetto su cui lasciare correre uno sguardo superficiale. (G. Ferraro, 2001). Certo, sono generalizzazioni provocatorie, esito di mesi di asfissiante frenesia emanata dagli avventori del Rifugio in cui ho lavorato. Il principio della democratizzazione dello spazio montano non è problematico in sé, quanto più quando si fa veicolo di semplicistica trasposizione in quello di principi, abitudini e di un habitus propri di altri contesti; quando la folla si impone con arroganza, priva di una cultura della montagna, della finezza del puro atto del camminare, del rispetto di una basilare educazione civica – che, fortunatamente, si fanno carico di prodigare le varie categorie di Guide – grottescamente carica al contrario di superficialità e informazioni riduttive proprie di una collettività che pascola sui social network.
SINO AL TARDO SETTECENTO, quando iniziò a muovere i suoi passi l’alpinismo, le cime delle montagne erano osservate da lontano dal montanaro – colui che in montagna ci vive – mosso al contempo da timore e fascinazione per esse, intimorito dal pericolo che gli suggeriva di tenersene alla larga – oltre al fatto che l’impervia vetta non ha nulla da offrire a chi si nutre di ciò che riesce a raccogliere in una natura restia all’addomesticamento. Sono di epoca più recente quindi l’alpinismo, la montagna quale Eden incontaminato, luogo selvaggio, intatto e puro, primordiale, atto alla propria rigenerazione psicofisica, più tardi terreno ideale e salubre per la villeggiatura, meta di un turismo di massa a cui siamo debitori di svariati scempi architettonici e naturalistici.
Oggi mi chiedono se la ferrata si può fare senza imbrago, se è possibile fare a meno del caschetto – lasciando supporre di non averli nemmeno caricati in macchina la mattina – se per affrontare un traverso notoriamente ghiacciato siano indispensabili i ramponcini, per non dimenticare il classico: «a che ora del giorno è prevista la pioggia?». Ecco i fruitori medi dell’ambiente alpino oggi. Esso è il mero supporto per un’attività fine a se stessa, volta esclusivamente ad un’egoistica rigenerazione fisica e psicologica dai malanni della pianura, incurante della profondità storico-antropologica del territorio ad ogni sua altitudine, dei suoi segni, così evidenti ad un occhio attento, ma soprattutto educato.
SIAMO PERMEATI PIÙ DA UNA CULTURA del passeggero che da quella del viaggiatore, come suggerito da un’interessante riflessione di Annibale Salsa (2009), in cui il primo punta esclusivamente alla destinazione, incurante dell’itinerario, se non in termini di «ansia di raggiungimento e di prestazione», a differenza del secondo. Il paesaggio ci parla, e non soltanto per il tramite dei suoi panorami incantevoli, della natura colorata e rigogliosa, così benevola secondo l’ancora diffusa visione romantica: si mostra a noi nella sua complessità, celando qualche dettaglio a volte, ma senza alcun velo di meschinità; esso si nutre contemporaneamente del nostro sguardo e delle nostre azioni, poiché il paesaggio è l’esito della reciproca relazione uomo-ambiente, non rimane alieno al nostro transito, si fa specchio delle nostre agire, ci restituisce ciò che la nostra impronta imprime sul suo suolo. In questo intreccio, come in altri contesti di relazione ed equilibrio, la componente antropica non deve esercitare quell’arroganza intrisa di superiorità, di mania dell’eccesso e di protagonismo, non deve imporre la logica del consumo e dell’usa e getta di cui il capitalismo ci ha resi schiavi, non deve pretendere alcun che. Semplicemente porsi in esso come parte integrante e non esclusiva, agente ma con buon senso, intelligente e non speculatrice, di condivisione e non di rapina, di saggezza e non di superficialità, in una simbiosi inevitabile, che potrebbe farsi costruttiva e non più distruttrice. A significare che quando attraversiamo questi luoghi per la nostra attività ludico-sportivo-ricreativa, non ci troviamo in uno spazio senza storia e senza tempo. Al contrario. Per tale ragione, quando programmiamo la nostra uscita per il fine settimana, per tirare il fiato da una routine lavorativa noiosa e sfiancante, dovremmo riflettere più a fondo sulla nostra destinazione e chiederci se siamo veramente disposti a coniugare il piacere della giornata all’aperto con l’interesse per il valore non meramente paesaggistico ma anche storico-antropologico della nostra meta; se siamo in grado di misurare con sincerità le nostre capacità, le nostre aspettative e la nostra sensibilità a cogliere le tracce sui sentieri – quei manufatti di pietra in cui talvolta si incorre, quei muretti a secco, che dovrebbero suscitare più di qualche interrogativo, avvallamenti del terreno non casuali, resti di antichi edifici, ripide mulattiere, gallerie nella roccia, “buchi” in quelle pareti che fanno sognare i climber, antichi percorsi di transumanze, segni di una precedente e diffusa coesistenza di natura, uomini e animali, in un arduo equilibrio costantemente rinegoziato, mai definitivo.
LA MONTAGNA È INSOMMA UN LUOGO antropizzato, attraversato, vissuto, modificato dall’azione umana sin dai tempi più remoti. Luogo di passaggio e di scambio, trasformato solo nel corso dell’Ottocento in confine invalicabile tra i neonati Stati nazione, ripetutamente guerreggianti, resta ad oggi uno spazio denso, impregnato di storia e di memorie, nemmeno così lontane. Vittima di un inarrestabile spopolamento, ci auspichiamo torni a nuova vita grazie al fenomeno del ritorno, veicolo di innovazione da innestare sui cosiddetti patrimoni di tradizioni, in un rilancio delle piccole economie locali. Questo non può fare a meno del contributo consapevole di chi decide di trascorre il weekend fuori città, dove consapevolezza significa non essere più meri fruitori di un bene, quanto piuttosto fautori di piccoli passi verso il recupero di una coscienza e di una bellezza interiore ed esteriore, personale e collettiva, sola chiave per un mutamento profondo, significativo e duraturo.
Senza nulla togliere, sia chiaro, al sacrosanto diritto di svagarsi liberamente nella tranquillità delle nostre montagne, senza obblighi né imposizioni, se dovesse mancare questa volontà, altrimenti detta buon senso, sin da principio sarebbe meglio chiedersi se non sia più appropriato limitarsi ad andare in palestra.
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