Cultura

Ian Manook, l’album di famiglia della memoria armena

Ian Manook, l’album di famiglia della memoria armena

Ian Manook Intervista all’autore di «L’uccello blu di Erzerum», edito da Fazi. Nel giorno in cui si ricorda il genocidio del 1915, il creatore di Yeruldelgger dà voce ai sopravvissuti. «Ricordare non basta, deve essere un monito per il presente, perché non accada mai più. E oggi la Russia sta facendo come la Turchia di allora: cerca di cancellare un intero popolo»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 24 aprile 2022

Araxie e Haïganouch non sono che delle bambine quando la violenza della Storia si abbatte sulle loro vite cambiandole tragicamente per sempre. È la primavera del 1915 quando una banda di tchété, predoni curdi che fungono spesso da ausiliari dell’armata ottomana, attacca la loro casa nelle campagne di Erzerum, nell’Armenia turca. La prima, otto anni, si salva nascondendosi in un campo di grano dopo che la madre ha attirato su di sé l’attenzione degli assalitori, l’altra, sei anni, sarà colpita gravemente e perderà la vista. Sopravvissute a stento e dopo aver assistito all’uccisione della madre e allo scempio del suo corpo, le bambine si riuniranno al resto della famiglia nella città vicina, ma si è già alla vigilia delle grandi deportazioni verso «i campi» di Deir ez Zor, nel deserto siriano, accompagnate da stragi e violenze di ogni tipo lungo il viaggio.

Lo scrittore Ian Manook

In meno di un anno la persecuzione sistematica della popolazione armena da parte delle autorità turche farà almeno un milione e mezzo di vittime: un genocidio che la Turchia non ha però mai riconosciuto. Araxie e Haïganouch riusciranno a sopravvivere ancora una volta, affrontando però nuove minacce e ritrovandosi a vivere la prima in Francia e l’altra in Urss. Ed è riannodando il filo della memoria che Ian Manook (nato Patrick Manoukian nel 1949 alle porte di Parigi), il celebre autore della saga del commissario mongolo Yeruldelgger, ha rielaborato i ricordi della nonna, l’Araxie della storia, per dare voce in L’uccello blu di Erzerum (Fazi, pp. 500, euro 20, traduzione di Maurizio Ferrara) ai sopravvissuti al genocidio armeno. Un romanzo che al dramma della Storia intreccia inesorabilmente le emozioni e lo sguardo dei testimoni.

In questo libro c’è prima di tutto la storia della sua famiglia: quando ha cominciato a sentire che doveva scriverlo, raccontare quanto era accaduto?
In realtà i contorni della storia si sono andati definendo pian piano a partire dai racconti di mia nonna che ascoltavo fin da quando ero bambino. Si trattava delle vicende della sua vita che si facevano più cupe mano a mano che diventavo grande e lei pensava che potessi capire. È così, lentamente, più con la calma di un fiume che con l’impeto di un torrente, che è nata l’idea di scriverne. Poi però ho dovuto misurarmi con i meccanismi dell’industria culturale. Questo era il primo romanzo che ho proposto al mio autore attuale, ma sono riuscito a portarlo a termine solo dopo che ne ho scritti un’altra decina.

Fin dalle prime pagine siamo immersi nell’orrore di quanto dovette subire la popolazione armena, a cominciare da donne e bambini, nel 1915. Si susseguono violenze selvagge, stupri, deportazioni che ricordano le «marce della morte» di qualche decennio più tardi. Eppure lei ha spiegato di aver tagliato alcune delle vicende più terribili che aveva appreso attraverso quei ricordi.
Non volevo soltanto che questo romanzo evocasse il genocidio armeno ma che, per quanto possibile attraverso le parole, raccontasse davvero cosa è successo allora, ciò che mia nonna e altri parenti mi hanno raccontato nel corso degli anni. Perciò, le prime sessanta pagine del libro spiegano cosa accadde, come gli armeni furono uccisi subito o deportati per essere eliminati lungo il viaggio o fatti morire una volta giunti a destinazione. Volevo mostrare concretamente l’orrore assoluto del genocidio. Volevo che il lettore capisse come, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, fu organizzato e messo in pratica il martirio di un popolo. Devo però ammettere di aver accettato di tagliare, su consiglio del mio editore, due scene ancora più orribili di quelle che compaiono nella versione finale del libro. In una, i cavalieri turchi giocano a buzkashi con bambini vivi al posto della carcassa di capra che usano abitualmente e poi si lanciano al galoppo sui piccoli che hanno separato dalla colonna dei deportati. In un’altra, su un ponte che fungeva da «zona di sterminio», gli ausiliari curdi massacrano e sventrano più di mille donne e bambini in un solo giorno, al punto da bloccare il corso del fiume e dover «cambiare macello». Volevo che i lettori capissero quanto è accaduto, non che rimanessero scioccati.

Lei ha appreso queste vicende terribili, aggiungendo poi la documentazione storica disponibile, dalla viva voce di sua nonna, da quella di zii, cugini e altri parenti. Come è riuscito a lavorare su questi ricordi spaventosi, che la toccano direttamente, trasformandoli nella base su cui ha costruito il romanzo?
In realtà, il processo relativo alla scrittura ha seguito la strada che ho già intrapreso da tempo con il noir. E penso che le storie di cui parlo nel libro, quelle che per prima mi ha narrato mia nonna, sono in qualche modo parte di me già da diversi decenni. Quindi non ho seguito un particolare piano di lavoro, ma ho lasciato che quanto volevo raccontare si sviluppasse pian piano. Anche perché questa volta al centro di tutto non dovevano esserci le mie emozioni, i miei ricordi o quanto stavo provando, ma le emozioni e i sentimenti che aveva provato all’epoca dei fatti prima di tutto mia nonna.

Non solo i turchi progettarono e misero in atto il tentativo di sterminio, ma fino ad oggi non hanno mai riconosciuto le proprie responsabilità e si è dovuto attendere molto prima che la stessa realtà dei fatti si affermasse a livello internazionale. Cosa significa crescere con tale memoria famigliare e legare in qualche modo la propria identità a questa sorta di tragico rimosso?
Penso di dover rispondere in due modi a questa domanda. Da un lato, per quanto riguarda il possibile riconoscimento della Turchia delle proprie responsabilità, credo sia ormai troppo tardi: gli ultimi testimoni diretti del genocidio sono morti, mia nonna è morta come molti altri che avevano condiviso le sue stesse esperienze. Se anche un giorno i turchi decideranno di fare i conti con la loro storia, la cosa non si giocherà più sul piano umano, sarà una decisione che forse avrà un significato per le generazioni a venire, per la Storia, ma non potrà più dire nulla a quanti subirono quelle violenze, spesso scampando a stento al peggio. D’altra parte, questo libro offre anche il resto della risposta: l’ho scritto prima di tutto per restituire la voce a coloro che avevano vissuto la tragedia, per dare finalmente la parola ai testimoni. Da quando è uscito in Francia lo scorso anno ho fatto più di una presentazione alla settimana e ogni volta, alla fine dell’incontro c’è qualcuno che si avvicina e mi dice: «Sapevo che era stata una cosa terribile, ma non avevo capito fino a che punto…». Un saggio o un libro di Storia possono spiegare che oltre un milione e mezzo di persone furono trucidate così, spesso con spade e coltelli, nello spazio di meno di un anno, ma proporre attraverso un romanzo le storie e le emozioni dei testimoni ai lettori può produrre uno scarto, una consapevolezza diversa. E ascoltare queste voci che ci aiutano a ricordare, significa impedire che simili fatti possano ripetersi: questo è non solo l’insegnamento, ma direi il compito attivo della memoria.

In questo senso, «L’uccello blu di Erzerum» non racconta solo quanto accadde, ma narra anche e forse soprattutto dei sopravvissuti? Si è mai chiesto cosa avrebbe pensato sua nonna di questo libro?
Prima che mia nonna morisse lavoravo già come giornalista e avevo partecipato alla stesura di una ricerca sugli armeni scritta da mio fratello. Ma credo che inconsciamente abbia voluto aspettare che lei non ci fosse più, come anche mio nonno e i miei genitori, prima di scrivere questo libro. Non mi sono mai detto che dovevo aspettare per farlo, ma è quello che ho fatto in realtà: dentro di me temevo di far rivivere soprattutto a lei tutto quel dolore. E cosa avrebbe potuto pensare leggendolo è una domanda che mi pongo anch’io molto spesso, ma alla quale non ho trovato ancora una risposta.

Il suo romanzo esce nel nostro Paese mentre l’invasione russa dell’Ucraina ci mette ogni giorno di fronte a nuove tragedie. Senza fare alcun paragone tra quanto ha raccontato e ciò che sta accadendo, come osserva la situazione?
In realtà penso si possa fare più di un parallelo con quanto ho scritto. C’è un Paese, la Russia, che vuole costruire un impero, negando l’esistenza stessa dell’Ucraina come popolo, cultura, lingua e cercando di riscrivere la Storia. In qualche modo, come la Turchia voleva cancellare gli armeni. E in tale prospettiva non importa analizzare cosa è accaduto prima di questa invasione, sono tutte scuse per giustificare quanto sta avvenendo. E quando in tv sento chi dice che questo non è genocidio perché non ci sarebbero «abbastanza» morti, mi rendo conto che non sa di cosa sta parlando. Un genocidio è definito dal fatto che uno Stato utilizza i propri strumenti e meccanismi istituzionali per sradicare una comunità, per via della religione, della lingua,della cultura o altro ancora. È questa volontà di annientamento a definire ciò con cui abbiamo a che fare, non il numero delle vittime.

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