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L’affollato palcoscenico birmano

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Myanmar Gli Stati uniti, la Francia e il Regno unito sono rimasti presenti con centri culturali anche durante la dittatura

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 25 maggio 2017

Il Myanmar non ha molto potere attivo da esercitare su altri paesi, ma un palco affollato di attori che, a diverse intensità, armeggiano con le strategie di soft power. Si tratta quindi, per il momento, di un fenomeno a una direzione. Dal cambio di regime politico nel 2010 a oggi, gli sforzi dei governi birmani e dei poteri forti – esercito e magnati che hanno fatto la propria fortuna durante gli anni della dittatura – si sono spesi all’interno, dove ci sono equilibri di fiducia su cui lavorare per influenzare la direzione che prenderà lo sviluppo economico del paese e conquistare posizioni strategiche nell’ultimo baluardo della regione a disposizione di investitori e speculatori.

Anche altri paesi del sudest asiatico non si destreggiano ancora con l’arte di influenzare senza ricorrere alle maniere forti perché troppo impegnati a risolvere complesse situazioni politiche interne, ma anche a causa di una mancanza di apparati statali sufficientemente sofisticati. Nel piano espansionistico – ad esempio – la Corea non si è lasciata sfuggire l’oceano di opportunità rappresentato dal Myanmar. Secondo l’agenzia di stampa Yonhap, il Ministero della cultura coreano sta offrendo contenuti televisivi gratuiti a MRTV, il canale tv pubblico birmano. La visione è sempre la stessa: creando fan della cultura coreana e della pelle di porcellana delle sue celebrità, si crea domanda per i loro prodotti.

La strategia della Cina, che ha un enorme interesse nel paese per il suo accesso al mare e per la disponibilità di importanti risorse, come petrolio, gas, legname e pietre preziose, ha dovuto prendere la strada del soft power in seguito a quella che, con una certa flessibilità interpretativa, si può considerare l’unica iniziativa di soft power birmana, in azione attraverso la propria politica interna: il cambio di regime. Durante l’embargo occidentale, la Cina, con la sua politica di non intromissione negli affari interni altrui, era riuscita a ottenere grandi concessioni dalla giunta militare, disperatamente bisognosa di entrate economiche.

Ma quando la presa cinese è diventata troppo stretta, il Myanmar ha fatto qualche passo in direzione di una democratizzazione, per convincere Stati uniti, Europa e Giappone a tornare a investire. Questo è successo, ma nel frattempo la popolazione aveva avuto abbastanza tempo per sviluppare un forte sentimento anti-cinese, provocato dalle grandi opere in cui la Cina era coinvolta, come impianti petroliferi, miniere, dighe e culminato nell’inaspettata decisione del Presidente Thein Sein, il primo dopo la svolta politica, di sospendere il massiccio progetto della diga di Myitsone. Da allora la Cina ha iniziato a preoccuparsi di conquistare la popolazione birmana operando al loro livello, non più esclusivamente a quello governativo.
Sono stati aperti due Istituti Confucio ed è stato lanciato un programma di viaggi gratuiti in Cina offerti a birmani con diversi profili professionali, con destinazione principale lo Yunnan, regione cinese confinante con il Myanmar. Nel 2015 a Mandalay è stato fondato il giornale Baobo News, rivolto alla comunità cinese birmana, al cui operato contribuiscono l’Istituto Confucio e il Dipartimento di propaganda dell’Università dello Yunnan.

A livello di media, vuole diffondere un’immagine positiva dello scambio tra Cina e Myanmar anche Xinhua, organo dello Stato cinese, che «valorizza un giornalismo bilanciato, ma cercando di insistere sugli aspetti positivi». Del suo staff di dieci persone solo Zhang è cinese e in un’intervista con il magazine birmano Frontier ha condiviso la visione giornalistica della testata per cui lavora: «Il Myanmar è un paese in via di sviluppo e non vogliamo essere il Grande Fratello che giudica cosa è giusto e cosa è sbagliato».

Gli Stati uniti, la Francia e il Regno Unito sono rimasti presenti in Myanmar con centri culturali anche durante la dittatura, spesso offrendo libri e materiali che fuori dai loro cancelli erano censurati e il cui possesso poteva condurre in prigione. L’Institut Français de Birmanie è stato per almeno un decennio l’unico luogo dove si potessero organizzare mostre d’arte, conferenze e performance senza rischiare di essere presi dalla polizia militare. Oggi si è aggiunto anche il Goethe Institut, che promuovendo scambi artistici di alto livello contribuisce a consolidare un’immagine sana e positiva della presenza tedesca in Myanmar.

Oltre a iniziative in grande scala, parte di una strategia sistematica e lungimirante, si osservano da alcuni anni piccole iniziative slegate tra loro, ma spesso ufficializzate dal supporto delle missioni diplomatiche, che hanno l’obiettivo di contribuire alla percezione positiva della presenza straniera. Il modello è semplice e consiste nel tentativo di agganciare partner economici partendo da attività di scambio culturale o sportivo. Così una piccola agenzia di comunicazione europea offre a un potenziale cliente birmano di portare famosi giocatori di calcio per partite amichevoli – senza necessariamente averne la possibilità – in cambio di una committenza per una campagna pubblicitaria. O uno studio di architettura organizza un evento di beneficenza con opere d’arte ospitato in una location offerta gratuitamente da una compagnia di costruzioni birmana che, in cambio, potrebbe commissionare allo studio la progettazione di un centro commerciale o di un’area residenziale. L’origine europea di queste piccole società, spesso senza alcuna esperienza pregressa nella regione o in ambito culturale, viene spesso ufficializzata dal supporto delle missioni diplomatiche sul luogo e l’eredità culturale del Vecchio Continente viene usata per tentare di giustificare la mancanza di conoscenza del contesto.

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