L’acqua rossa del Colorado
Ambiente Il fiume che ha scavato il Grand Canyon è diventato la conduttura idrica del più grande deserto dell’emisfero occidentale. Una zona secca dove oggi vivono 60 milioni di persone, tra campi sterminati, centinaia di piscine e campi da golf
Ambiente Il fiume che ha scavato il Grand Canyon è diventato la conduttura idrica del più grande deserto dell’emisfero occidentale. Una zona secca dove oggi vivono 60 milioni di persone, tra campi sterminati, centinaia di piscine e campi da golf
Visto in volo sul basso Mojave, il Colorado River è un serpente smeraldo che segna con le sue anse pigre il confine fra California e Arizona, un solco che taglia il deserto brullo diretto al Golfo di California. Gli indiani lo chiamavano Lapay’ha, «acqua rossa», per il colore delle sue acque gonfie di limo eroso all’arenaria fiammante degli altipiani di Colorado, Utah e Arizona. Oggi dal terzo fiume americano (2.330 km) si diramano centinaia di acquedotti e prese d’acqua che sostengono l’insostenibile boom del Sud Ovest americano. Un mastodontico sistema di chiuse, dighe e grandi opere idroelettriche che lo hanno ridotto a poco più di conduttura idraulica di un esperimento di sviluppo agricolo e urbano nella maggiore regione desertica dell’emisfero occidentale.
Il Southwest degli Stati uniti è l’epicentro di un impressionante boom demografico alimentato da un’economia di servizi, grandi consumi favoriti dall’afflusso di pensionati provenienti da altre regioni e la massiccia immigrazione di manodopera ispanica per terziario e agricoltura. L’esistenza stessa delle numerose metropoli costruite nel deserto dipende dalla capillare rete di supporto idrico che si dirama dal fiume e sostiene oggi una popolazione di 35 milioni di persone.
Il dato più impressionante è la rapidità dei questo sviluppo: lo sfruttamento del Colorado, un corso d’acqua che ha impiegato milioni di anni per scavare il Grand Canyon e creare alcuni dei paesaggi più straordinariamente belli di questa regione, dura da appena cent’anni. Eppure oggi è il fiume più controllato al mondo: una miriade di enti statali, amministrazioni locali, distretti agricoli e municipalità in una mezza dozzina di stati hanno spremuto ogni goccia possibile delle sue acque. Ma la crescita non accenna a fermarsi e la prospettiva di una catastrofica siccità entro la metà di questo secolo si fa sempre più probabile. Intanto le opere faraoniche hanno già provocato danni e mutamenti ambientali su scala gigantesca e forse irreversibile.
Il mare di morte a Salton
Il Salton Sea è paradigmatico dell’effetto che l’uomo e la sua grande sete hanno avuto su questo territorio spietatamente bello. Il più grande specchio d’acqua della California è lungo 55 km, largo 20 e profondo soltanto due metri. Malgrado il nome altisonante, più che di un mare si tratta di una gigantesca pozzanghera, un corpo d’acqua inerte di oltre 20.000 chilometri quadrati nelle retrovie del deserto Anza Borrego, a pochi chilometri dal confine messicano. Il Salton ha un anno di nascita: il 1905, quando un gruppo di coloni decide di costruire un canale dal Colorado per irrigare i campi polverosi della Coachella Valley. A questo scopo si rese necessaria una diga e per costruirla il fiume viene temporaneamente dirottato dal proprio corso. Senonché gli argini provvisori non reggono e per un anno e mezzo tra il 1905 e il 1907 l’intera portata del fiume si riversa nel deserto confluendo nel suo punto più basso, il «Salton Sink», una conca 80 metri sotto il livello del mare, fra la Coachella e l’Imperial Valley. Un errore di calcolo da cui nasce il Salton Sea, un lago “per sbaglio”, emblematico degli ecosistemi “artificiosi” dell’Ovest.
Una volta ristabilito il corso del fiume, si disse allora, il lago, senza tributari e sotto il sole implacabile sarebbe presto evaporato; e invece un secolo dopo è ancora li – una riviera apocalittica tenuta artificialmente in vita dagli scarichi agricoli che vi defluiscono dai 250.000 ettari di campi che l’irrigazione ha trasformato in serra per la produzione industriale di prodotti agricoli. Gli scoli portano con sé fertilizzanti, pesticidi e i sali concentrati presenti nel suolo del deserto. Sostanze che da un secolo si sedimentano in un mortifero cocktail nel lago «zombie», ormai 25% più salato dell’oceano.
È un luogo insalubre e inquietante, sovrastato da un tanfo stomachevole. Un pozzo nero che nel frattempo, paradossalmente, è diventato il luogo di sosta di migliaia di uccelli migratori e habitat di una improbabile fauna ittica affetta da cicliche morie dovute a scompensi ecologici che favoriscono la crescita smodata delle alghe nocive e il propagarsi del botulino.
La sponda meridionale del lago salato e malato è la più inquietante. Qui se ci si avventura per qualche passo sulla spiaggia l’odore di marcio ti avvolge come una cosa solida e dolciastra. E si sprofonda spiacevolmente in quella che non è sabbia ma più da vicino si rivela essere uno strato di scheletri di pesci e uccelli finemente sgretolati sopra una melma verdastra e gelatinosa. Come l’Owens Lake, prosciugato dalla sete dei losangelesi, il Salton è emblematico della devastante portata di un’ingegneria ambientale che molti esperti reputano ormai palesemente insostenibile e della quale più di tutti ha fatto le spese il Colorado, il «motore» idrologico di tutta la regione. La ripartizione sistematica delle sue acque, infatti, ha condannato all’estinzione quello che una volta era il suo vasto delta sul golfo di Cortez. Fino all’inizio del ‘900 questo era un ecosistema fluviale paragonabile a quello del Nilo, nonché terra ancestrale degli indios Cocopah dediti alla pesca e all’agricoltura.
Oggi il terzo fiume d’America si spegne in una serie di pozzanghere fangose a una ventina di chilometri dal mare, prosciugato da una delle più vaste reti di irrigazione del mondo. Nei contenziosi che hanno caratterizzato la ripartizione delle sue acque infatti tutti si sono comunque trovati d’accordo solo su una cosa: dare il meno possibile al Messico. Quello che fu un fiume maestoso è oggi poco più che un rigagnolo. Che prima di entrare in Messico subisce l’ultimo salasso, quello dell’All American Canal che appena a monte del confine fa un ultimo prelievo d’acqua per innaffiare verdure e prati delle villette a schiera.
La riscossa ambientalista
Il precoce e repentino declino del Colorado è servito a galvanizzare il movimento ambientalista. L’attitudine americana verso il continente che era il suo «destino manifesto» d’altronde è ambigua dai tempi dell’ideale jeffersoniano dello Yeoman. il colono virtuoso, assieme operoso e contemplativo dell’abbondanza naturale. È una dualità che si biforca nella dottrina del «manifest destiny» e in quel misticismo naturalista che da Thoreau porta al proto- ambientalismo di John Muir, padre fondatore di Yosemite e del movimento dei parchi nazionali. Per entrambe le fazioni, l’Ovest rappresenta una terra promessa e il Colorado una sorta di Eldorado anche se con accezioni molto diverse. Il fiume viene esplorato per primo da John Wesley Powell, un colonnello dell’Unione inviato dal governo nel 1869 per fare rilevamenti per l’irrigazione. Per lui la navigazione attraverso le rapide del Grand Canyon costituisce un’esperienza mistica tale da convertirlo invece in un paladino della conservazione. Va da sé che il governo federale aveva idee molto diverse – e fretta di colonizzare i nuovi territori strappati al Messico.
In cento anni il bacino idrico del fiume è stato imbrigliato da 44 dighe. Le due più simboliche sono la Hoover Dam inaugurata nel 1935 all’altezza di Las Vegas da Franklin Roosevelt come simbolo di rinascita dalla grande depressione e la Glen Canyon Dam che ha creato l’artificiale Lake Powell a monte del Grand Canyon. Quest’ultima in particolare è diventata il simbolo negativo della manipolazione di un ecosistema che ha sommerso terre indigene, distrutto l’habitat del salmone e delle comunità indiane che ne erano dipendenti e prodotto al loro posto migliaia di campi da golf nel deserto, sterminati comprensori residenziali con aiuole innaffiate, milioni di case col condizionamento sempre acceso. Glen Canyon, ultimata nel 1966 è diventata anche il simbolo di un movimento per l’ambiente che delle lotta alle dighe in particolare ha fatto un emblema.
Il sentimento è cristallizzato ne «I Sabotatori» (The Monkey Wrench Gang), il romanzo di Edward Abbey su un gruppo di “ecoterroristi” che nel 1972 ha acceso l’immaginazione degli ecologisti radicali. In quella storia un gruppo di idealisti e ruvidi lupi solitari con la passione per i grandi spazi del sudovest e il deserto incontaminato, decidono di ostacolare l’avanzata inesorabile della civiltà, prima distruggendo cartelloni pubblicitari e progettando in seguito un attentato alla Glen Canyon Dam per «liberare il grande fiume» e con esso l’anima indomita del West. Anche Night Moves, il film di Kelly Reichardt presentato allo scorso festival di Venezia narrava proprio di un analoga ‘operazione’ anti-diga. Ispirandosi alla «banda della chiave inglese» della storia, formazioni come Earth First!, Greenpeace e Earth Liberation Front hanno in seguito fatto dell’azione diretta una pratica di lotta ambientale.
Oggi il livello di scontro diretto si è forse abbassato rispetto agli anni Ottanta ma l’impegno radical è stato metabolizzato da un movimento più ampio e istituzionale. Nel 1981 un commando di Earth First! fece scalpore quando srotolò nottetempo una simbolica “crepa” di 80 metri sulla facciata della diga di Glen Canyon usando tela scura. L’Fbi scatenò allora una vana caccia all’uomo, oggi invece il meticoloso lavoro di associazioni come Living Rivers o il Glen Canyon Institute, che combattono lo sfruttamento idrico e la costruzione di nuove dighe nei tribunali federali, hanno reso «accettabile» un concetto prima impensabile come la demolizione di alcune dighe.
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