L’accordo Usa-Talebani preoccupa il governo di Kabul
Afghanistan Ghani si sente tradito dall'inviato di Trump e alza la voce. Resta irrisolto il nodo della pace tra lo Stato afghano e la guerriglia. E l'Italia con Di Maio agli Esteri che farà?
Afghanistan Ghani si sente tradito dall'inviato di Trump e alza la voce. Resta irrisolto il nodo della pace tra lo Stato afghano e la guerriglia. E l'Italia con Di Maio agli Esteri che farà?
Marginalizzato e politicamente indebolito dai negoziati solo bilaterali tra Talebani e Americani, il governo di Kabul prova a fare la voce grossa. Ieri Seddiq Sediqui, il portavoce del presidente Ashraf Ghani, ha reso noto che il governo «è preoccupato e per questo chiede ulteriori chiarimenti per esaminare accuratamente rischi potenziali e conseguenze negative» dell’accordo di Doha tra i Talebani e l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad. Che lunedì ha portato il testo a Ghani e ne ha anticipato alcuni contenuti alla tv ToloNews: ritiro entro 135 giorni dalla firma di 5.400 dei circa 14.000 soldati Usa.
Il resto del testo non è pubblico, ma è chiaro il nodo politico. Gli afghani, spalle al muro, si sentono in parte traditi da Khalilzad, che ha derubricato come secondario ciò che fino a pochi mesi fa riteneva prioritario: che alla “pace” tra Americani e Talebani corrisponda quella tra il governo di Kabul e la guerriglia.
La preoccupazione non è solo sua. Dagli Stati uniti – dove Ghani ha vissuto a lungo – arriva una dichiarazione congiunta di 9 tra ex ambasciatori e inviati speciali Usa in Afghanistan. Sostengono con forza la soluzione negoziata al conflitto, ma chiedono «che il ritiro completo delle truppe avvenga solo dopo una vera pace», non prima, e che il governo afghano venga sostenuto, non tagliato fuori dai negoziati, come fin qui avvenuto. Rigettano inoltre una delle ipotesi ventilate – un esecutivo a interim dopo la firma dell’accordo – e si dicono a favore delle presidenziali il 28 settembre. Nessuno sa se si terranno o meno.
Ghani, in cerca del secondo mandato, assicura che il voto è indispensabile per la legittimità del sistema ma alcuni candidati poco convinti si sono già ritirati mentre uno dei favoriti, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Hanif Atmar, ha sospeso la campagna e il premier Abdullah è disposto a rinunciarvi «per favorire la pace». Sul voto un funzionario internazionale da anni a Kabul e che preferisce restare anonimo è sconsolato: «Continua a stupirmi la mancanza di conoscenza diretta della realtà dell’Afghanistan quotidiano di vari analisti che pontificano sul futuro… Se solo chiedessero in strada e nelle campagne alla gente cosa pensa delle elezioni che, secondo la consumata narrativa americana, ogni non talebano vorrebbe disperatamente…».
Sfiducia sul voto dunque ma anche rabbia e rumors di ogni tipo tra cui quello, riferisce una fonte, secondo cui gli americani sparerebbero addirittura sui soldati afghani. Clima teso e preoccupato. Anche tra gli umanitari che lavorano nel Paese. Luca Lo Presti di Pangea se ne fa tramite: «Al tavolo negoziale assenti i temi legati alla popolazione: i diritti delle donne o quello all’istruzione. Solo controllo e spartizione del potere. Che trattativa è?».
Non la spiega nemmeno il segretario generale della Nato Stoltenberg che, incontrando Mike Pompeo, si limita a ribadire «sostegno pieno agli Usa». Sì, ma i suoi 16mila soldati che faranno?
In Italia la cosa è nelle mani di due neoministri: Di Maio e Lorenzo Guerini, che dal Comitato parlamentare per la sicurezza (Copasir, controllo parlamentare sui servizi segreti) è stato mandato alla Difesa a sostituire la ministra pentastellata Trenta che si è distinta per le sue visite in mimetica (stile ereditato da La Russa) al contingente italiano in Afghanistan (800 uomini) che il governo gialloverde, nonostante le posizioni “ritiriste” in campagna elettorale, ha ridotto solo di un centinaio di unità. Lodigiano e già vicesegretario del Pd si spera che almeno smetta l’uso della mimetica. Ma soprattutto il nuovo capo della Farnesina potrebbe prendere una posizione visto che erediterà dal silenziosissimo Moavero Milanesi il dossier afghano che il suo predecessore aveva avocato a sé sottraendolo al sottosegretario per l’Asia Manlio Di Stefano. Per tenerlo nel cassetto.
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