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La voce nera di Gayl Jones

La voce nera di Gayl JonesErwin Olaf, «The dancing school», 2004

Scrittrici statunitensi Dai blues di una cantante talentuosa, il modello formale di un romanzo denso di umori e di erotismo, in cui risuonano secoli di sopraffazione: «Corregidora», da Feltrinelli

Pubblicato circa un anno faEdizione del 16 luglio 2023

A metà degli anni Ottanta, il critico afroamericano Houston A. Baker Jr. propose una teoria dell’ermeneutica letteraria destinata a fare scuola. Alla ricerca di strumenti interpretativi che riuscissero a descrivere adeguatamente le strategie retoriche e i contesti socioculturali compresi nella tradizione letteraria dei neri statunitensi, con Blues, Ideology, and Afro-American Literature lo studioso presentò quella che definì una «teoria vernacolare». Riportando al centro la sfera dell’oralità, fino ad allora trascurata in favore di criteri centrati sulla parola scritta e quindi sui rapporti strettamente intertestuali, Baker dimostra con efficacia come lo studio della letteratura afroamericana non possa prescindere da una profonda comprensione del contesto folklorico dal quale è derivata.

Il blues in particolare, scrive, è un elemento di cruciale importanza per penetrare le forme letterarie dell’America nera: in questo caso, il blues va inteso non solo come un genere musicale, bensì come un sistema complesso che, proponendosi anzitutto come inclinazione filosofica ed esistenziale, si amplia a includere attitudini di carattere etico, estetico e ovviamente poetico.

Il blues, afferma Baker, è come una forza: una pulsione produttiva e fluida attraverso la quale gli afroamericani hanno decifrato il mondo che stava loro intorno, raccontando i dolori e gli orrori di una società schiavista prima e segregata poi, proiettati verso l’immaginazione di un futuro che li avrebbe emancipati da una storia scritta con sangue e sudore. Di fatto, sia la musica blues sia la sua evoluzione, il jazz, hanno da sempre avuto un ruolo di rilievo nel canone letterario nero. Sono numerosissimi gli autori che hanno attinto alle forme musicali popolari nel desiderio di smuovere la scrittura nera dalla ripetizione passiva di stilemi dettati dalla letteratura bianca, spingendola verso forme che fossero autenticamente afroamericane. Da Langston Hughes, primo «poeta jazz», a Toni Morrison, il cui romanzo titolato Jazz è un tributo sontuoso alla musica nera e alla Harlem degli anni Venti di cui Hughes fu il bardo, la letteratura nera contemporanea non ha mai nascosto il legame vitale con la musica e gli impulsi culturali che l’hanno generata.

Lo spettro di uno stupro
Fra gli esempi più celebri, il romanzo di Gayl Jones, Corregidora (traduzione di Sara Antonelli, Feltrinelli, pp. 190, € 17,00), pubblicato nel 1975 e ora finalmente disponibile anche ai lettori italiani. Incaricata di occuparsi della pubblicazione dell’opera quando lavorava come redattrice presso la Random House, la stessa Toni Morrison si spinse ad affermare che Jones aveva cambiato per sempre il corso della letteratura afroamericana al femminile. Nel romanzo, il blues è presente sia come argomento sia come modello formale della narrazione, facendo di Corregidora un esempio eccellente della compenetrazione tra genere popolare e stile letterario di cui scrive Baker.

Cantante talentuosa che si esibisce nei locali di un’anonima città del Kentucky verso la fine degli anni Quaranta, Ursa Corregidora ha un insolito cognome esotico, legato a una storia niente affatto inconsueta per il popolo afroamericano.
Le donne della sua famiglia discendono da un sadico schiavista portoghese sistematicamente dedito allo stupro, e dunque quel sopruso è inciso per sempre nel nome e nel corredo mnestico che i personaggi si tramandano di madre in figlia, portando di generazione in generazione notizia di un fardello di ossessioni e repulsioni che si stagliano fisse sullo sfondo della narrazione. Essere a un tempo etereo e incarnato, il portoghese viene evocato nei racconti familiari e soprattutto torna a galla nel rapporto traumatico che Ursa – come posseduta dallo spettro di quell’uomo – ha con la sessualità.

Grazie alla sua notevole maestria tecnica, Gayl Jones amalgama forma e contenuto in un artefatto romanzesco i cui elementi appaiono inscindibili. Come il tema di un pezzo jazz, esposto dai musicisti e subito abbandonato per poi venire ripreso in una sequenza che torna ciclicamente sui suoi passi, la storia di Corregidora e delle sue eredi stabilisce un tema di fondo per le vicissitudini della protagonista, definendone il ritmo e l’armonia. Mentre racconta il passato, Jones lo fa sfumare nel presente, scomponendone l’ordito, aprendolo nelle sue fibre perché possa ospitare quelli che si rivelano essere i motivi ricorrenti della narrazione, accennati e poi ripresi in una trama via via diversa, sebbene generata dall’intreccio di quegli stessi fili. Non a caso, Amiri Baraka, altro grande autore e teorico afroamericano, ha definito la dinamica tipica del blues come «uno stesso che cambia», individuando nella simultaneità della evoluzione e del ritorno di uno stesso tema la cifra stilistica al cuore dell’espressività genuinamente nera.

Ursa canta le sue canzoni dando sfogo alla malinconia e alla frustrazione maturata per via del suo rapporto difficile con gli uomini e con il sesso; ma nei brani scaturiti dai suoi dolori privati si riflettono secoli di sopraffazione, sradicamento e violenza: la storia, come la musica, non può che essere un’esperienza collettiva. Nel racconto di Ursa Corregidora risuonano i vecchi blues di un intero popolo che, come in una seduta spiritica, parlano nella voce della protagonista per estendere la propria eco al pubblico e ai lettori. Come nei blues più arcaici, il linguaggio di Jones è tagliente, denso di umori e di erotismo, ma allo stesso tempo ellittico nel limitarsi a suggerire rimandi destinati a restare oscuri. La figura del Corregidora schiavista non perviene mai a una messa a fuoco: descritta a sprazzi, attraverso un coro intergenerazionale di voci, suona come un susseguirsi di assolo prodotti da strumenti diversi, incapaci di portare a compimento una partitura sulla quale incombe l’enormità del trauma che tentano invano di fissare sulla pagina.
Da qui la sensazione di poter accedere al cuore del romanzo solo per approssimazioni, tramite una traccia retorica che pur non sfociando nell’afasia rifiuta un rapporto di corrispondenza univoca tra linguaggio e mondo fenomenico, e sceglie dunque di evocare più che descrivere, ricorrendo alla polifonia e al dialogismo.

Una storia che eccede la Storia
Il risultato, non può che essere elusivo: Corregidora si apre in medias res e sfugge a un vero e proprio scioglimento dei nodi tematici, come a riprodurre le improvvisazioni canore della protagonista, fluide e impossibili da fissare in uno spartito. Nessuna promessa di redenzione nel romanzo di Jones, solo un doloroso e incerto tentativo di comprendere e comunicare l’esperienza delle donne nere: come dice la cantante Ma’ Rainey nell’opera del drammaturgo afroamericano August Wilson a lei dedicata, «Non si canta per sentirsi meglio. Si canta perché è un modo di capire la vita.»
Sovvertendo le strutture della narrazione per prodursi in un canto viscerale, tanto tormentato quanto liberatorio, Gayl Jones riesce nel non facile compito di conferire forma e sostanza alla fuggevolezza di storie impossibili da affidare ai rigidi annali della Storia.

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