La vita agra dei pescatori di Istanbul
Reportage La pesca è in crisi profonda per la scomparsa del pesce, il boom degli allevamenti, l’inquinamento del mare e l’assenza di politiche per tutelare il settore
Reportage La pesca è in crisi profonda per la scomparsa del pesce, il boom degli allevamenti, l’inquinamento del mare e l’assenza di politiche per tutelare il settore
In Turchia la pesca è alla base di una cultura culinaria che abbraccia il sociale, la politica e la storia. La tradizione del «rakı-balık», legata alla regione dell’Egeo, è un’esperienza di condivisione, di comunità e di divertimento imperniata intorno alle meze, al pesce e, ovviamente, al rakı, superalcolico a base di anice che viene bevuto con acqua gelida e ghiaccio. La cultura delle meyhane, ristoranti di pesce in cui cantori di musica turca intrattengono gli ospiti, rappresenta uno dei baluardi della cultura laica e occidentalista introdotta da Atatürk. A Istanbul il pesce non si consuma solo in ristoranti chic, anzi: il panino con lo sgombro alla griglia appena pescato, le cozze fritte con salsa aioli, e quelle ripiene di riso e spezie sono vendute per strada a prezzi popolari.
Ma allora perché la pesca è al centro di dibattiti e scontri in merito alla sua sostenibilità economica e ambientale? Siamo venuti a Rumeli Kavagi, un quartiere di Sarıyer (Istanbul) sul lato occidentale del Bosforo e vicino allo sbocco sul Mar Nero, in cerca di risposte.
Fino agli anni ‘80, questo villaggio era abitato soltanto da pescatori e dalle loro famiglie che, dagli anni ‘90, si sono trovate in difficoltà a causa del declino del settore della pesca. Irfan, addetto alla comunicazione per la cooperativa di pescatori locale, racconta che il primo grande cambiamento è stato nella quantità e nella qualità del pescato: «Alcune specie, prima abbondanti, sono sparite dalle nostre coste. Oggi resistono soprattutto i grandi branchi di acciughe e palamite, pesce più povero e meno remunerativo.» Infatti, negli ultimi 10 anni la quantità di triglie pescate (in tonnellate) è precipitata da 10.560 a 1.721, e quella di merluzzi da 4.100 a solo 642.
Ma la vera tempesta sul settore si è abbattuta con l’aumento degli allevamenti, su cui si concentrano sempre più forza lavoro e investimenti: «La qualità è infinitamente più bassa, perché i mangimi e gli antibiotici utilizzati finiscono nel prodotto finale».
Tutti questi cambiamenti hanno reso quello del pescatore un mestiere più difficile e rischioso: «Le società di assicurazioni hanno prezzi esorbitanti e, complice anche l’assenza di un obbligo legale, la maggior parte di chi lavora per mesi sulle barche non ha una polizza che li tuteli». Il primo settembre è ricominciata la stagione e, prosegue Irfan, «i pescatori hanno dovuto contrarre forti debiti per essere pronti: comprare rifornimenti, carburante, nuove reti. Significa partire nell’incertezza, con il timore che se la stagione non dovesse andar bene, dovranno far fronte a debiti che potrebbero costringerli a vendere la barca».
Secondo Irfan «l’uomo» è il colpevole: mala gestione, inquinamento e interessi di altri settori cozzano con le vite dei pescatori con più fragore delle onde sugli scogli.
Allo scopo di far fronte alle difficoltà, negli anni ‘60 è stata fondata la Cooperativa di Rumeli Kavagi, organizzazione che vuole fare da ponte tra lo stato e i pescatori. Il presidente Mert Ayan ci segnala in particolare l’assenza di un ministero specifico: «I pescatori vorrebbero un riferimento più diretto. Abbiamo incontri con ogni ente statale. C’è sempre disponibilità, ma quando si tratta di trovare una soluzione le cose vanno sempre per le lunghe. Siamo sotto il Ministero dell’Agricoltura, che ovviamente ha molte altre priorità», dice sconsolato. «A volte abbiamo la sensazione di essere l’ultima generazione di pescatori. È un lavoro che non ha molta attrattiva. I giovani si rivolgono a settori dove credono di poter guadagnare più facilmente e anche quando non accade non tornano alla vita da pescatore», racconta Mert. Che critica il governo: «In quest’ultimo decennio la concessione sregolata delle licenze per i pescherecci non ha aiutato i pescatori, per non parlare della fauna marina. Se il governo avesse regolamentato questi processi, forse ora le cose sarebbero diverse».
Di mare non vivono soltanto i proprietari dei pescherecci, ma anche una rete di famiglie, spesso poverissime, che lavorano nel settore delle cozze – è da questa municipalità che arriva il 90% di quelle consumate a Istanbul, e non solo. Oltre il porto vivono uomini e donne di ogni età che, per pochi soldi, sgusciano e puliscono tonnellate di mitili per prepararle alla vendita. Il comune ha cercato di mettere una pezza e regolamentare il settore costruendo spazi e container da affittare e dove svolgere il lavoro. La maggior parte di queste persone, molte Rom, continua però a vivere in fatiscenti baracche affastellate lungo le coste del Bosforo, dove l’odore salmastro del mare si mescola a quello dei gusci neri accatastati in mucchi.
Lasciato alle spalle questo paesaggio, passiamo di fronte ad un negozio dove i pesci sono appesi ad essiccare. Un’anonima pescheria. Ahmet, il proprietario, ci accoglie con un sorriso. Basta poco per entrare in confidenza e mangiare qualche boccone di sgombro preparato sul retro del laboratorio.
«Ho lavorato per anni sui pescherecci, girando mille paesi e mille mari, conosco persone di ogni parte del mond», racconta. «La mia esperienza nei paesi scandinavi mi ha ispirato a fare della mia pensione una nuova attività, che posso continuare qui a terra senza abbandonare il mio primo grande amore: il mare». Ahmet taglia svelto e preciso dei tranci di pesce marinato per giorni in una speciale salamoia con un pizzico di zucchero: un piacere per il palato che richiama alle affumicature leggere delle aringhe nei paesi del nord Europa. Assaggiamo ed entra Halit, un habitué del posto. Mostrandoci con entusiasmo i suoi disegni di Rumeli Kavagi, ispirati ai racconti che ha ascoltato dai più anziani e da alcune vecchissime foto, presto il suo sguardo si adombra. Halit, che si definisce un comunista, con tutti i significati che può avere per un sessantenne turco, ci parla di ambiente, di sostenibilità dei sistemi economici, e degli squilibri causati da certa politica.
Halit è una miniera di informazioni: «Mi ricordo che quando ero piccolo bastava calare una bacinella nel Bosforo e questa tornava su piena di pesci . La nostra dieta era sana, e non c’era bisogno di avere tanti soldi per nutrirsi in modo completo. Adesso la persone – con il prezzo del pesce di mare che schizza sempre più in alto – preferisce comprare pesce allevato, che contiene sostanze nocive derivanti dall’uso di antibiotici e mangimi scorretti». Secondo i dati del Ministero dell’Agricoltura, tra il 2007 e il 2015 la differenza di tonnellate di prodotto pescato in mare aperto e di pesce allevato si è ridotta drasticamente (-61,1%).
C’è poi la questione ambientale: «Al giorno d’oggi i fondali di questa zona sono coperti di immondizia che ottura i pori del sistema, impedendo al fondale di rifornirsi di ossigeno e di dare il necessario apporto alle forme di vita sottomarina. Andrebbero dragati, anche perché non si tratta solo di plastica e rifiuti di vario genere, ma di sostanze chimiche che vengono gettate dalle industrie lungo le coste del Mar Nero».
Un altro fattore inquinante è determinato dall’intenso traffico marittimo nel Bosforo, un sovraffollamento di navi, incluse quelle che trasportano petrolio e sostanze pericolose (nel 2003 una nave georgiana si è schiantata sversando 480 tonnellate di petrolio). Inoltre, negli ultimi decenni, moltissime famiglie si sono trasferite dall’entroterra anatolico a Istanbul, attirate dalle opportunità di studio e lavoro create dal governo per indurre un processo di migrazione interna: così la metropoli, che contava meno di un milione di persone negli anni ’50, oggi ne ospita oltre 15 milioni. E la pressione sulle risorse naturali, in assenza di politiche adeguate, è diventata davvero insostenibile.
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