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La via crucis di Hassan Al-Banna, giornalista egiziano

La via crucis di Hassan Al-Banna, giornalista egizianoHassan Al-Banna

Egitto Prima il carcere a Tora, dove l'amico Shady Habbash gli è morto tra le braccia. Poi la paura fuori, il viaggio in Giordania e la deportazione al Cairo con la complicità di Amman e di due compagnie aeree

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 aprile 2021

Il giornalista egiziano Hassan Al-Banna è stato fatto scomparire per oltre 24 ore dalle autorità egiziane, dopo essere stato trasferito forzatamente al Cairo dall’aeroporto di Amman, dove era arrivato venerdì scorso con un regolare volo dall’Egitto.

Banna era già stato vittima di sparizione forzata nel 2018: venticinquenne, fu arrestato con l’amico Mustafa Al-Aasar, per poi riapparire, come raccontato anche da questo giornale, in una sede dei servizi di sicurezza a Giza, accusato di diffusione di false notizie sulla base di prove artefatte.

Volando in Giordania, Hassan sperava di lasciarsi alle spalle le sofferenze di due anni e mezzo di custodia cautelare, il trauma per la morte dell’amico regista Shady Habbash, spentosi tra le sue braccia nel carcere di Tora, e poi la paura di uscire per la strada, anche dopo la scarcerazione, il terrore di un nuovo arresto immotivato, come quello subito da Mustafa, tuttora detenuto.

«Hassan era andato in Giordania perché è un paese che consente agli egiziani di accedere senza visto. Voleva rilassarsi lì qualche giorno, pensare a come iniziare una nuova vita – spiega al manifesto Abdel Rahman Fares, fratello di Hassan e senior editor della testata Al-Araby Al-Jadid – Appena è salito sull’aereo dall’Egitto ci ha mandato una sua foto, sorrideva. Dopo essere uscito di prigione diceva sempre: non sarò tranquillo fino a quando non avrò lasciato il Paese».

Ma una volta ad Amman, le autorità aeroportuali hanno negato il visto a Banna e iniziato a fare pressione per deportarlo nuovamente in Egitto, nonostante il giornalista tentasse di appellarsi ai suoi diritti, sottolineando i rischi che avrebbe corso in patria. «Nel frattempo noi abbiamo contattato personalità di alto livello, tra cui un ministro – spiega ancora Fares – Ha promesso di non deportarlo, ci ha solo fatto perdere tempo».

A sostenere Banna, cercando di ottenere di farlo viaggiare verso un Paese terzo, è stata anche la Egyptian initiative for personal rights (Eipr), l’ong per cui lavorava anche Patrick Zaki.

Dopo aver ottenuto un visto elettronico per il Kenya e nonostante le rassicurazioni delle autorità di Nairobi, ha spiegato il direttore Hossam Baghat al giornale indipendente Mada Masr, una compagnia aerea ha rifiutato di trasportare Banna, sostenendo che il suo visto non fosse valido.

Lo stesso è accaduto con un’altra compagnia che, con giustificazioni analoghe, gli ha negato la possibilità di acquistare un biglietto per il Libano.

«Più tardi – spiega ancora Fares – abbiamo appreso che le autorità egiziane avevano inviato alla loro controparte giordana due lettere, per chiedere prima l’arresto, poi l’estradizione di Hassan».

A colpire è quella che sembrerebbe essere la totale collaborazione da parte di Amman: dopo aver trascorso 56 ore in aeroporto, Banna è stato scortato fino in Egitto da un ufficiale della sicurezza giordana. Poi, una volta al Cairo, l’interruzione di tutte le comunicazioni, un buco nero durato un giorno: ora che Hassan è tornato a casa, spiegano i familiari, ha bisogno di riposo e preferisce non parlare di quanto accaduto in quelle ore.

«Non ho idea del perché le autorità egiziane siano così interessate a mio fratello…Se non volevano che viaggiasse, perché lo hanno lasciato uscire dal Paese?».

Si indigna ancora Fares, che scrive da Doha, in Qatar: «Penso semplicemente che gli apparati di sicurezza egiziani non vogliano che gli ex detenuti vivano in pace, vogliono tenerli sotto pressione».

«L’episodio di questi giorni non ha fatto che aumentare la nostra costante paura del regime – conclude il giornalista – La nostra famiglia ha diversi membri detenuti, altri in esilio. Nostro fratello maggiore è stato ucciso dall’esercito e dai proiettili della polizia, la nostra vita è influenzata negativamente da ogni nuova intimidazione. Vogliamo solo respirare liberamente».

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