Per interpretare il voto di domenica basta guardare alle province turche colpite dal sisma del 6 febbraio scorso. Tanti immaginavano che le macerie fisiche e morali della speculazione edilizia marchio di fabbrica del governo Akp e il ritardo colpevole nei soccorsi avrebbero riempito le urne di malcontento. Così non è stato.

Le città devastate dal terremoto non hanno deviato dal tradizionale sostegno al partito Giustizia e Sviluppo del presidente Erdogan. Ad Adıyaman è dato al 66,2%, a Maras al 71,8%, a Kilis al 65,6%. Numeri che sono lo specchio dell’altro risultato, le parlamentari offuscate dalla corsa alla presidenza. Dei 600 seggi da assegnare, l’attuale coalizione di governo ne avrebbe ottenuti 322, maggioranza assoluta.

CHIUNQUE siederà nel palazzo presidenziale di Ankara governerà con un parlamento, di nuovo, di destra. Sta qui il senso della tornata elettorale turca, nella presa di coscienza che no, la Turchia non è Gezi Park. O almeno, non è solo Gezi.

La spinta progressista intravista nell’unità tanto sudata delle opposizioni e nelle piazze da anni piene del Pride e dell’8 marzo ha indotto a percepire l’egemonia di un paese altro rispetto a quello rappresentato dal 2003 da Recep Tayyip Erdogan.

In due decenni di potere pressoché assoluto – mediatico, economico, militare, burocratico, educativo – il presidente non ha plasmato la Turchia a sua immagine, o almeno non del tutto. Ha saputo leggerne l’altra anima, quella che ha vissuto come violenza la discriminazione della propria identità religiosa, marginalizzata dal laicismo su cui è stata fondata la repubblica kemalista.

LA MAPPA ELETTORALE lo conferma: a un sud-est a maggioranza curda storicamente politicizzato da una necessaria resistenza all’assimilazione e a una costa ovest che guarda all’Europa, si contrappone un cuore conservatore, un entroterra che vede nell’islam la primaria fonte di definizione di sé. Erdogan non ha fatto che portarla al potere, quella metà di Turchia conservatrice fatta di un pezzo importante di classe operaia (la meno sindacalizzata) e di classe bassa, con una buona componente femminile, il perno invisibile del successo di Erdogan che percepisce come lontanissima da sé la mobilitazione femminista che da anni infiamma Istanbul.

Alla lettura della società attuale (specchio di un ritorno alla religione nell’intera regione, dal Nord Africa a Israele) Erdogan ha unito il pugno di ferro: da una parte l’occupazione di ogni ganglio dello stato, dall’altra il soffocamento strutturale della società civile progressista, epurata, incarcerata o costretta all’esilio e privata della capacità di parlare al paese. Ci parla lui, ne conosce il linguaggio.