Ad Adiyaman non è rimasto più niente. Solo polvere, macerie e il rimbombo stridulo delle scavatrici. Prima del sisma questa cittadina dell’Anatolia sudorientale contava 180mila abitanti, ora è quasi totalmente distrutta, con interi quartieri rasi al suolo. I bambini vagano soli tra le pozzanghere ai bordi delle strade, gli adulti fanno la fila per prendere una zuppa calda e del pane nei punti di distribuzione disposti dai volontari. Le case, intorno, sono cumuli di briciole.

A KAHRAMANMARAS e Hatay lo scenario non cambia. Sembra la trama di un film dell’orrore. Il rumore è lo stesso, le scavatrici anche. Tutto sembra essere abbracciato da una grande nuvola grigia, silenziosa e allo stesso tempo assordante. Sono passate più di due settimane da quando il terremoto di magnitudo 7,8 ha colpito la Turchia meridionale e la Siria nord-occidentale. Il bilancio totale delle vittime supera i 46mila morti. Sono moltissime le città e i piccoli paesi distrutti. Almeno due milioni di persone hanno perso la propria casa. Anche se questa insopportabile tragedia ha spinto il governo turco a creare una rete improvvisata di campi tenda e rifugi temporanei, i cittadini accusano le autorità di aver aggirato la responsabilità per gli standard di costruzione scadenti. La risposta di emergenza ritardata, confusa e disorganizzata, non ha aiutato, mettendo il presidente Erdogan in una posizione sempre più precaria, proprio quando il Paese si dirige verso le prossime elezioni generali.

«Gli edifici che avrebbero dovuto essere in grado di resistere al terremoto sono crollati, è mancata la supervisione delle imprese di costruzione, il governo ha permesso di aggirare le norme di sicurezza a favore della velocità e del costo – racconta Ismail, in fila per il pane, – Ci hanno lasciato morire. Ci sono persone che hanno agito solo per i propri interessi: sono loro che hanno causato questo problema, si preoccupano del denaro e non delle persone, non dovrebbe essere così».

AD ADIYAMAN il tempo scorre lento, i gatti ai bordi delle strade sono smunti e affamati. I supermercati sono stati completamente saccheggiati, restano solo alcune casse di pomodori ormai marciti e qualche pezzo di pane impolverato sopra a ciò che resiste degli scaffali.

«Quando è arrivato il terremoto, io e mia mamma siamo riuscite a scappare in tempo, mia zia e le mie due cuginette sono morte sotto i resti della nostra casa», racconta Damla, una bambina di undici anni, che la notte dorme insieme alla madre dentro a una tenda offerta dall’Afad, la protezione civile turca. «Il sindaco della nostra città, per dimostrare di governare bene, ci disse che in quei giorni erano crollati solo due o tre edifici, beh venite a controllare nelle nostre città, entrate nei nostri ospedali, sono giorni che sono stracolmi di cadaveri, abbiamo paura di finirci anche noi in quegli ospedali». Damla tiene stretta la mano della sua amica, gli occhi scavati dal dolore e i capelli raccolti in un elastico argentato sporco di polvere, addosso ha solo un maglioncino rosso di qualche taglia più grande e dei leggings lilla. «Il governo non ha mai controllato le nostre case, lo ha fatto solo dopo, quando sono crollate – dice tormentata, e aggiunge – Ho gli occhi viola, sono stanca di piangere, cosa ne sarà di noi?».

Foto di Carlotta Giauna

C’è il sole ad Adiyaman ma le temperature sono sotto lo zero. I volontari, i militari, l’Afad e gli operatori umanitari si organizzano per offrire e distribuire generi di prima necessità come piccole stufe a gas, materassi e coperte. Il 19 febbraio, la Turchia ha annunciato di aver concluso ufficialmente i tentativi di salvataggio in tutte le province più colpite tranne due, ad Hatay e a Kahramanmaras, dove le ricerche continuano. Giunti da ogni parte del mondo i soccorritori continuano a scavare tra le macerie, nel disperato tentativo di trovare ancora un sopravvissuto.

SI SCAVA CON LE RUSPE e a volte con le mani, incessantemente, per ore, a volte giorni, nonostante sia passato ormai molto tempo e sebbene la possibilità di trovare qualcuno vivo sia ormai minima. «Quando pensiamo di aver trovato un sopravvissuto, facciamo il controllo del suono – racconta Batuhan, un giovane soccorritore giunto, insieme alla sua squadra di ricerca e salvataggio, ad Hatay, da Marmaris, un piccolo paese sulla Costa Turchese – Quando siamo fortunati, ci fermiamo e chiediamo a chi sta intorno di fare silenzio per provare a udire qualche voce provenire da sotto le macerie, prima di procedere con le ruspe. Insieme al mio team, il giorno dopo il terremoto abbiamo salvato un ragazzo di nome Alihan, ci abbiamo impiegato 112 ore, più di quattro giorni, eravamo sfiniti ma quando abbiamo capito che avremmo potuto farcela abbiamo recuperato energia e motivazione e siamo riusciti a tirarlo fuori».

BATUHAN È SEDUTO su una piccola sedia di plastica bianca, fuma quello che resta di un filtro di una sigaretta, accanto a lui un fuoco e alcune tende dell’Afad; ha lo sguardo nel vuoto, racconta di aver estratto molti cadaveri e avvertire oggi una grande paura, quella di non provare più nessuna emozione: «Quando ho toccato il primo cadavere avevo tanta paura, mi chiedevo come riuscirò a tirarlo fuori? Come mi sentirò? Oggi ho estratto così tanti cadaveri dalle macerie che inizio a sentirmi totalmente privo di emozioni. Questo mi fa molta paura perché ciò che tocchiamo è in realtà un essere umano, un corpo umano. Morto o vivo è un corpo umano, e un essere umano non dovrebbe vivere una tragedia così terribile e nessuno qui dovrebbe mai dimenticare questo orrore».

Ad Adiyaman, Kahramanmaras e Hatay non è rimasto più nulla, non ci sono più le case, le scuole, gli ospedali, le caserme di polizia; i parchi sono diventati i rifugi per chi non ha neppure una tenda dove stare, le piazze sono diventate punti di raccolta e di distribuzione di beni di prima necessità. Intorno, l’abbandono e lo strazio di chi ha perso tutto e non sa dove andare; di chi non si dà pace e a mani nude scava tra le macerie con la speranza di trovare il corpo di un familiare, per dargli degna sepoltura; e di chi rovista tra i resti della propria casa, sperando di recuperare anche solo un piccolo effetto personale. Tra i sassi e la polvere spuntano vestiti, diplomi di scuola, braccialetti colorati, passeggini, fotografie, pattini a rotelle, libri, bambole e peluche.

IRMAK AVRÀ sì e no otto mesi, ha i piedini avvolti da un paio di calzini rosa e il nasino segnato da una piccola ferita, un uomo la tiene stretta tra le braccia, si chiama Mehmet ed è suo nonno: «Mia nipote è l’unica sopravvissuta della sua famiglia. Sua madre, il padre, sua sorella e suo fratello sono morti, sepolti dalle pareti della loro casa. Insieme all’aiuto di mio figlio, sono riuscito a salvarla scavando tra le pietre con le mani», racconta. Lo zio di Irmak torna sulle macerie della casa che ormai non c’è più e con una dolorosa cantilena elenca i nomi della sua famiglia sterminata. «Gokhan, Zeriban, Orhan, Bedriye».
Oggi Irmak e suo nonno Mehmet condividono una tenda dentro al cassone di un camion insieme allo zio e ad altre famiglie di sfollati.

CALA LA NOTTE, le strade diventano deserte, è il silenzio ora il solo protagonista di questo scenario assurdo e straziante. Il periodo che seguirà aprirà le porte a un secondo immenso dramma: il paese dovrà con fatica ricostruirsi e il governo questa volta non sarà probabilmente in grado di scrollarsi di dosso questa crisi, come spesso è stato in grado di fare in passato. Intanto nella serata di lunedì 20 febbraio una nuova scossa di terremoto, di magnitudo 6.4, ha colpito la Turchia meridionale. L’epicentro, ancora una volta ad Hatay. La gente nelle case è corsa fuori per le strade. Chi è più fortunato ha abbandonato in auto la città per raggiungere le case di campagna. Per tutti gli altri, si spera che presto il governo offra una soluzione stabile, che non preveda quindi un supporto temporaneo come una tenda o la panchina di un parco.