«Realisticamente», un aggettivo che suonava strano nella bocca di Bruce Springsteen, il grande ribelle dell’America lavoratrice, il cantore di un patriottismo militante ma inclusivo. Eppure è proprio ciò che ha detto il grande Bruce a Philadelphia, lunedì sera, quando ha cantato e poi parlato in sostegno di Hillary Clinton.

Il suo «realisticamente» si riferiva a una non meglio precisata riforma dell’immigrazione che i democratici promettono da anni e che è stata fin qui bloccata dal Congresso a maggioranza repubblicana. Il tema ha dominato la campagna elettorale perché Trump ha cercato consensi tra gli operai bianchi proprio facendo appello ai loro timori di perdere il lavoro, o di essere costretti ad accettare salari più bassi a causa della concorrenza di messicani e altri stranieri immigrati, spesso clandestinamente.

SOLO SUL PALCO DEGLI ARTISTI, con la sua chitarra, Springsteen ha riscaldato una folla entusiasta che aspettava da ore l’arrivo delle due dinastie politiche americane che da un quarto di secolo dominano la scena politica: gli Obama e i Clinton. Il posto d’onore, quello di ultimo oratore della serata, era riservato a lei, a Hillary Clinton ma curiosamente la tribù Chelsea-Bill-Hiillary appariva molto sotto tono in confronto all’energia di Michelle Obama e al magnetismo di Barack, l’unico capace di trovare la battuta giusta anche in un finale di campagna elettorale così teso, aspro, incattivito. Obama ha rilevato che da qualche giorno Trump non usa più Twitter, su consiglio dei suoi collaboratori e ha detto: «I suoi consiglieri non si fidano più a lasciargli in mano Twitter e noi dovremmo fidarci a lasciargli in mano il controllo delle armi nucleari?».

FILADELFIA È UNA CITTÀ AMICA e l’evento era stato accuratamente pianificato: la folla aveva un unico tipo di cartello, con scritto «USA» da una parte e «Hardhats for Hillary» dall’altra. Gli hardhats del sindacato edili, sezione 703, erano presenti in massa, a significare che i lavoratori manuali possono e vogliono votare per i democratici, nonostante i sondaggi dicano il contrario.

Né la coreografia né Bruce Springsteen potevano però far dimenticare a chi vive di lavoro manuale che i salari medi di chi non è andato all’università stagnano da oltre 40 anni, e che il salario minimo, quello a cui si affidano decine di milioni di lavoratori, in particolare nel turismo e nella ristorazione, raggiunse il suo massimo nel 1968, quando era presidente Lyndon Johnson, quasi mezzo secolo fa. Sono questi lavoratori quelli che si riconoscono nei versi di Dancing in the Dark che Springsteen ha cantato l’altra sera: Man I ain’t getting nowhere, I’m just living in a dump like this («Amico, non vado da nessuna parte, continuo a vivere in questo cesso di posto»).

ED È A QUESTI LAVORATORI che i democratici si sono rivelati incapaci di offrire prospettive, abbandonandoli al loro destino. Non da oggi: fu proprio Bill Clinton, più di vent’anni fa, a imporre gli accordi di libero scambio con Canada e Messico che favorirono la deindustrializzazione del Midwest, e fu ancora Bill Clinton ad accelerare la finanziarizzazione dell’economia americana senza preoccuparsi di ciò che sarebbe avvenuto in Ohio, sugli Appalachi, in Michigan. Barack Obama ha salvato Detroit e l’industria automobilistica americana dalla rovina, nel 2009, ma questo ha solo tamponato una situazione ormai estremamente degradata.

LA CONVERSIONE DI HILLARY alla lotta per l’aumento del salario minimo e al rifiuto di accordi di libero scambio pur negoziati da Obama mentre lei era Segretario di stato, suonano quindi piuttosto strumentali, concessioni dell’ultima ora alle posizioni che Bernie Sanders ha portato con forza all’interno del partito. Hillary come campione della classe operaia ha poca credibilità e lunedì sera, chi alzava gli occhi dal palco, scopriva che il grande spiazzo di fronte a Independence Hall è dominato dai grattacieli della banca Wells Fargo e del conglomerato finanziario Dow Jones.

SPRINGSTEEN HA CANTATO anche Long Walk Home, definendola una «preghiera» per queste elezioni, ma i versi che uscivano dalla sua bocca descrivevano proprio il risultato di decenni di promesse non mantenute: Well Veteran’s Hall high upon the hill/Stood silent and alone/The diner was shuttered and boarded/With a sign that just said “gone”. Centri di ritrovo abbandonati e silenziosi, ristoranti chiusi, un paesaggio di desolazione che il grande Bruce, insieme a Bob Dylan, ha cantato mille volte.

Un paesaggio che negli otto anni di presidenza Obama non è affatto migliorato, semmai il contrario: perché le vittime della globalizzazione dovrebbero ora avere fiducia in Hillary Clinton? Donald Trump è un buffone xenofobo, ma si rivolge a loro: i democratici danno l’impressione di ricordarsi della loro esistenza solo alla vigilia del voto.