La candidatura di Kamala Harris ha galvanizzato l’establishement democratico, che la scorsa settimana era in preda allo sconforto. L’impopolarità di Biden, di cui il presidente in carica sembrava non rendersi conto, il fallito attentato a Donald Trump, e la scelta, da parte di quest’ultimo, di J.D. Vance come candidato alla vice-presidenza, avevano creato per qualche giorno l’impressione che la partita delle elezioni fosse chiusa. Che il vantaggio nei sondaggi dell’ex presidente repubblicano fosse ormai diventato incolmabile. Buona parte dei commenti guardavano già al dopo elezioni, e ai pericoli che una nuova presidenza Trump prospetta per gli Stati Uniti.

La consapevolezza che la situazione per i democratici fosse disperata ha spinto alcune figure di spicco del partito a intensificare la pressione sul presidente uscente. La minaccia di una presa di posizione da parte dei vertici democratici – si diceva che la stessa Nancy Pelosi fosse sul punto di chiedere a Biden di farsi da parte – ha sboccato la situazione, conducendo all’endorsement di Kamala Harris come candidata “istituzionale” in grado di raccogliere l’eredità di quattro anni di governo che hanno restituito vigore all’economia, e di riequilibrare scelte di politica estera – in primo luogo sulla Palestina – che avevano alienato una parte dell’elettorato democratico.

Sui temi internazionali c’è stato, già dalle prime ore, un segnale interessante. La scelta di Harris di prendere le distanze, sia pure in modo cauto e sfumato, dall’atteggiamento di Biden nei confronti del governo Israeliano, sottolineata dall’assenza sia del presidente sia della vice quando Netanyahu ha tenuto il suo contestato intervento al Congresso. Questo gesto di discontinuità ha restituito vigore a una campagna che deve recuperare consenso tra gli elettori più sensibili al destino dei palestinesi.

Ciò nonostante, sarebbe un errore parlare di un cambio di direzione nella politica statunitense su Gaza. Nel suo discorso, Harris non è andata oltre l’espressione di una preoccupazione per le sorti dei civili, e non ha detto nulla su ciò che conta davvero: il sostegno incondizionato a Netanyahu. Su questo tema, la responsabilità dell’attuale amministrazione statunitense, nella quale Harris ha avuto, almeno sul piano formale, un ruolo di primo piano, rimane il nodo da sciogliere. Parole, per quanto sincere, di rammarico per le vittime della guerra non sono sufficienti.

Questo ci conduce al problema centrale della candidatura democratica alla presidenza. Non essere stati in grado di comprendere i danni che l’atteggiamento di Biden su Gaza stava facendo alla credibilità degli Stati Uniti come paese che dovrebbe difendere un ordine globale basato sulla tutela del diritto internazionale e dei diritti umani ha messo in dubbio le credenziali dei democratici come partito di riferimento per i progressisti sul piano internazionale. Sotto questo profilo, ben più credibili sono state certe forze della sinistra europea (in Spagna, in Francia e in Irlanda) che tuttavia non hanno la stessa capacità di proiezione globale.

C’è poi una questione di fondo, quasi assente dal dibattito pubblico, se si escludono alcune voci della sinistra statunitense. Al di là delle apparenze, Kamala Harris ha qualcosa in comune con J.D. Vance. Si tratta, in entrambi i casi, di candidati che devono la propria forza a un’investitura dall’alto, che non è passata attraverso un reale processo politico all’interno dei due principali partiti. Da un lato c’è l’erede legittima che viene chiamata a sostituire in corsa un leader che non è più in grado di svolgere il proprio ruolo. Dall’altro c’è un erede presuntivo che dovrà fare i conti con un autocrate cui potrebbe venire a noia anche prima del previsto.

Comunque vadano le elezioni, dunque, e anche se Kamala Harris dovesse prevalere – cosa niente affatto scontata, come ha argomentato ieri Fabrizio Tonello – i progressisti dovrebbero riflettere con attenzione su una crisi di legittimità le cui cause sono remote e profonde. Le tendenze autocratiche e oligarchiche del sistema politico statunitense, che molto hanno a che fare con il peso eccessivo che il denaro ha nel processo democratico, sono ben evidenti in questa elezione, e non sarebbero certo neutralizzate da una vittoria di Harris. Se la scelta si riduce al pubblico ministero e al pregiudicato, anche se gli elettori scegliessero il primo, c’è poco da stare allegri.