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La strategia «occidentale» di al-Sisi: Ramy Shaath sarà liberato

La strategia «occidentale» di al-Sisi: Ramy Shaath sarà liberatoRamy Shaath

Egitto L'attivista egiziano-palestinese, co-fondatore del Bds e volto di Piazza Tahrir, era in carcere in detenzione cautelare da due anni e mezzo. Sarà deportato in Francia, di cui la moglie è cittadina. Opaco il ruolo di Macron. Ma come per Patrick Zaki il timore è di qualche "regalia" egiziana agli alleati in cambio del silenzio sul resto delle violazioni

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 5 gennaio 2022

«Le autorità egiziane ci hanno informato ieri dell’imminente liberazione di Ramy Shaath, di cui continuiamo a seguire la situazione con la più grande attenzione». Con poche righe, scarne, ieri il ministero degli Esteri francese proseguiva con il profilo basso tenuto in questi due anni sul caso Shaath.

Il presidente Macron ne aveva accennato all’ex generale al-Sisi poco più di un anno fa, all’Eliseo, pomposa visita da cui il presidente golpista egiziano se ne andò con al collo la Legion d’Onore e nelle orecchie la dottrina Macron: il business non può essere condizionato dai diritti umani.

Possibile che ci siano state pressioni dietro le quinte, di certo non sono state pubblicizzate. Del resto Parigi (che lo scorso maggio ha venduto 30 jet Rafale al regime egiziano per 4,5 miliardi di dollari) ha sempre sorvolato sull’omicidio di un suo cittadino, il 49enne Eric Lang, ammazzato di botte nel 2013 in una stazione di polizia del Cairo, morte per cui tre anni dopo sono stati condannati sei altri detenuti, ma su cui pesa come un macigno il dubbio di un ruolo dei poliziotti presenti (sul corpo furono trovati i segni di torture inflitte con l’elettricità).

INSOMMA, DALL’ELISEO non giunge voce. Eppure la prigionia di Ramy Shaath è un caso da manuale della macchina repressiva del regime di al-Sisi: attivista egiziano-palestinese figlio di Nabil Shaath (ex primo ministro palestinese), tra i volti più noti della rivoluzione di piazza Tahrir, co-fondatore del Bds Egypt, la filiale locale della campagna di Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni dello Stato di Israele, era stato arrestato nel luglio 2019 con l’accusa di sostegno a un gruppo terroristico.

Ne sono seguiti due anni e mezzo di detenzione cautelare, nessuna accusa ufficiale, nessun processo, in violazione della stessa liberticida legge egiziana che prevede un massimo di 24 mesi dietro le sbarre senza portare il detenuto di fronte a un tribunale. In mezzo, nell’aprile 2020, l’inserimento del suo nome in una lista di tredici egiziani accusati di terrorismo (con l’ovvio corollario del congelamento dei beni).

Poi, lunedì sera, la svolta: Ramy Shaath è stato rilasciato. In realtà è ancora dentro: le procedure egiziane di scarcerazione sono notoriamente farraginose, spesso l’ultima forma di punizione politica. A ieri sera non era ancora «sull’asfalto», l’espressione usata dagli egiziani quando un prigioniero torna alla vita.

DI CERTO – O QUASI – si sa che sarà deportato in Francia subito dopo il rilascio: la moglie Celine Lebrun è francese ed è nel suo paese che era dovuta tornare su ordine di deportazione delle autorità egiziane dopo l’arresto del marito.

Dalla Francia ha lanciato una campagna per la sua liberazione con il sostegno della società civile e delle associazioni per i diritti umani. Della deportazione ha dato notizia l’ex deputato Mohamed Anwar el Sadat (nipote dell’ex presidente Sadat ed ex capo della Commissione diritti umani del parlamento), che negli ultimi tempi ha mediato il rilascio di alcuni prigionieri politici.

A ordinare il rilascio di Shaath, dicono fonti giudiziarie all’Afp, è stata la procura. Significherebbe che le accuse contenute nel fascicolo che lo ha tenuto in una cella per due anni e mezzo (e che la sua difesa non ha mai potuto nemmeno sfogliare) sarebbero cadute. O, forse, che il regime di al-Sisi sta optando per la liberazione di quegli egiziani la cui prigionia infastidisce la comunità internazionale. A partire dagli alleati più stretti. L’Italia e la Francia, ad esempio, che possono celebrare il rilascio (seppur a tempo) di Patrick Zaki e quello di Ramy Shaath.

IN REALTÀ CAMBIA POCO: perché 60-100mila prigionieri politici restano in carcere e perché la liberazione di una manciata di detenuti è accompagnata dall’obbligo del silenzio. Nel caso di Patrick con un processo ancora pendente; per Ramy con una deportazione dal paese per cui si batte da decenni.

Un silenzio che, secondo l’agenzia Middle East Monitor, calerebbe anche sui tribunali: il ministero della giustizia egiziana avrebbe deciso di introdurre una novità per le udienze dei detenuti in attesa di processo.

Da gennaio il giudice potrà, da remoto, ricorrere a tecnologie che convertono dichiarazioni orali in testi scritti. Tagliando fuori quindi gli avvocati che non avrebbero modo di sentire cosa ha da dire la procura, e viceversa. Preoccupazione anche tra le famiglie dei prigionieri: per molti, le udienze sono la sola occasione di vederli.

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