Il gastronomo e il Papa: parrebbe il titolo di un racconto di Luis Sepúlveda, lo scrittore cileno che amava San Francesco («una figura giustiziera, un fratello che stava dalla parte dei poveri e della loro dignità») e amava Papa Francesco («che è la voce dei poveri e degli ultimi e non ha paura dei potenti, fuori e anche dentro la Chiesa»). Invece è la cornice di un incontro sorprendente tra Carlo Petrini e il Pontefice, che dà origine al volume Terrafutura. Dialoghi con Papa Francesco sull’ecologia integrale, edito da Giunti e Slow Food. Un libro con molte cose dentro – un pasticcio, si direbbe in cucina – fatto con la saggezza delle nonne più volte evocate nel comune ricordo di ricette piemontesi. Tre chiacchierate che bastano a far emergere alcune perle, e cinque sezioni tematiche che presentano una riflessione dell’autore e stralci di testi del Papa: una personale antologia, il cui taglio riporta alla concretezza fattiva di Petrini, fondatore di Arci Gola, inventore di Slow Food e tra molte altre cose della rete internazionale di Terra Madre e delle Comunità Laudato si’ – una tra le numerose iniziative nate dalla società civile in dialogo con la rivoluzionaria enciclica sull’ecologia integrale che Francesco presentò al mondo nel 2015.

La conoscenza tra il Papa cattolico teologo argentino, come Petrini descrive Francesco, e l’agnostico ex comunista gastronomo italiano, ha inizio con una lettera inviata in Vaticano dopo il primo viaggio pastorale del Pontefice a Lampedusa, nel 2013. «In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza», aveva detto il Papa, portando la propria solidarietà ai migranti e agli isolani. «Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti innominati, responsabili senza nome e senza volto. Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del patire con». Parole profetiche, mentre nel mondo le persone scompaiono nel contatore di una pandemia che colpisce 188 Paesi e che ha causato 900mila morti: una cifra enorme eppure divenuta consueta, come quella dei migranti che scompaiono, i neri cancellati per violenza razzista, i vecchi abbandonati, i malati, i poveri, nella messa in atto di una selezione che si colloca in quella che il Papa chiama «cultura dello scarto».

Una settimana dopo aver spedito la sua lettera, Petrini ricevette una telefonata da un numero sconosciuto, era Francesco. Comincia così l’amicizia che avrebbe condotto ai tre incontri nel 2018, 2019 e 2020 che, pubblicati oggi, si collocano nell’intreccio di crisi climatica, ambientale, economica e sociale che segna il nostro orizzonte, assumendo valore di progetto e di speranza.

In una conversazione lieve, amichevole, Francesco propone continui spiazzamenti. Parla del film Il pranzo di Babette, ambientato in una comunità calvinista in Danimarca, irrigidita dal senso del peccato e dalla privazione, dove, grazie all’arte della cuoca francese – che utilizza quello che ha vinto alla lotteria per imbandire piatti squisiti – fa irruzione il piacere. «Il pranzo di Babette per me è una delle cose più umane e belle del cinema, perché è una donna che ha fatto vedere a una comunità il vero cammino della vita. Non le importava niente dei soldi, le importava della vita». La vita, il vivente, segnano l’attraversamento scelto da Petrini in quello che diventa un dialogo a distanza su cinque temi – biodiversità, economia, migrazioni, educazione, comunità – e che è sempre un’assunzione di responsabilità sulla Casa comune.

Tra le umanissime ammissioni disseminate nella conversazione c’è la rivelazione di una tardiva convinzione ecologica. Francesco racconta che ancora nel 2007, partecipando come vescovo di Buenos Aires alla V Conferenza dell’episcopato latinoamericano che si tenne ad Aparecida, in Brasile, gli parve che i vescovi spendessero fiumi di inutili parole sulle implicazioni ambientali e sociali della crisi in Amazzonia. «Ricordo bene di avere provato fastidio per questo atteggiamento e di aver anche commentato: Questi brasiliani ci fanno impazzire con i loro discorsi! Allora non capivo perché la nostra assise di vescovi dovesse dedicarsi al tema dell’Amazzonia, per me la salute del polmone verde del mondo non era una preoccupazione, o almeno non capivo cosa c’entrava col mio ruolo di Vescovo! Da quel 2007 molto tempo è passato, e io ho cambiato completamente la percezione del problema ambientale. Allora non capivo, e sette anni dopo scrivevo l’Enciclica».
Una percezione che, questa volta nel suo ruolo di Papa, Francesco ha introdotto nel mondo rivolgendosi a credenti e non credenti, così che l’autorevolezza della sua voce ha risuonato assieme a quella dei milioni di giovani che hanno dato vita a un movimento per il clima e il diritto al futuro. Una percezione entrata radicalmente anche dentro la Chiesa, così che Domenico Pompili, vescovo di Rieti, afferma nell’introduzione al libro: «La crisi ecologica della Terra è la crisi stessa della civiltà tecnico-scientifica e costituisce il capo d’accusa fondamentale a uno dei miti del nostro tempo: il progresso. Qual è la radice della folle corsa a un progresso così disumanizzante? C’è una risposta sola: una smisurata volontà di dominio». A questo sistema «organizzato per privilegiare e tutelare gli interessi di una parte minoritaria di popolazione mondiale a scapito degli altri», scrive Petrini, bisogna opporre una nuova cultura di comunità, capace di «superare anche la dicotomia Stato/mercato e pubblico/privato per provare ad approdare su nuovi lidi. Queste sponde promettenti hanno un nome preciso: beni comuni».

In attesa dell’enciclica Tutti fratelli, annunciata per il 3 ottobre, non c’è posto per un ecologismo che non rinuncia alla crescita, per un green washing che diventa ulteriore occasione di guadagno. Bisogna guardare alle periferie, dice il Papa, andare lì, dove si gioca il futuro. «Siamo davanti all’esigenza di una politica di base forte per andare in quella direzione?», chiede Petrini. «Esatto» risponde Francesco. «Una politica che dica mai a un’economia selvaggia di mercato, mai alla mistica delle finanze a cui non ci si può aggrappare, perché sono aria. Un nuovo modo di intendere l’economia, un nuovo protagonismo dei popoli».