La situazione nelle carceri. Parla Mauro Palma
Intervista a Mauro Palma Il Garante nazionale esclude responsabilità ministeriali per la scarcerazione di alcuni detenuti per l'emergenza Covid-19 e, al contrario, lancia l'allarme per il perdurante sovraffollamento, invitando la politica a mantenere alcune innovazioni di questi giorni mantenendo sempre un "pensiero alto" sulla pena e le misure alternative
Per gentile concessione dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, che ringraziamo, ripubblichiamo l’intervista a Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, pubblicata l’8 maggio sul sito dell’Istituto.
L’epidemia di Coronavirus ha fatto esplodere tutte le contraddizioni presenti da tempo e lungamente ignorate nella nostra società. È quanto, ad esempio, è avvenuto nelle carceri, dove il Covid-19 è andato ad aggravare una situazione già estremamente difficile. In quali condizioni versava il sistema carcerario italiano quando è arrivata l’epidemia?
La situazione delle carceri in Italia è da tempo alle prese con tre questioni latenti, una delle quali è esplosa proprio in questi giorni.
La prima è legata al perdurare del sovraffollamento. Quella che è la raccomandazione principale per evitare il contagio, ossia mantenere il distanziamento tra le persone, diventa inattuabile in situazioni di sovraffollamento come quella che è presente negli istituti di pena italiani. Ricordiamo che quando l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per via del sovraffollamento delle sue carceri, nel 2013, contavamo circa 63.000 detenuti. Oggi, dopo alcuni interventi fatti dopo quella importante sentenza che avevano portato il numero dei detenuti a 52.000, siamo risaliti fino ad arrivare, al 29 febbraio scorso, a 61.230 detenuti per un numero di posti pari a circa 50.000, di cui solo circa 47.000 effettivamente disponibili.
La seconda questione latente riguarda il fatto che la popolazione carceraria, che nell’opinione pubblica viene sempre fatta coincidere con i quasi 9.000 detenuti di alta sicurezza, o con i 750 che sono al 41 bis, è in realtà composta in maniera del tutto prevalente da condannati a piccole pene.
Al 29 febbraio, ad esempio, circa 2.000 persone detenute erano condannate a una pena inferiore ad un anno, che quindi non solo non hanno commesso grandi reati, ma che potrebbero anche beneficiare di misure alternative al carcere di cui evidentemente non godono per problemi di natura diversa: sono, ad esempio, senza fissa dimora, o stranieri, o persone prive di difesa. Ciò rivela come il carcere sia in realtà diventato il luogo dove vanno a confluire gli esiti di altre contraddizioni sociali, di altri fallimenti delle reti di sostegno.
Sempre al 29 febbraio, nelle carceri italiane erano detenute circa 23.000 persone che tra pena data o residuo di pena dovevano scontare meno di 3 anni in carcere. Persone per cui forse sarebbe stato utile pensare programmi alternativi.
La terza questione concerne il fatto che il carcere italiano è molto enfaticamente investito da dibattiti ideologici. Tanto che ogni volta che si prova ad avanzare proposte di modulazione delle pene o per forme alternative per la loro esecuzione si viene accusati di “perdonismo” o di voler abbassare la guardia rispetto alla lotta alla criminalità.
Quando a marzo si sono cominciati a prendere provvedimenti per ridurre la popolazione carceraria intervenendo sulle persone che avevano un residuo di pena basso o specifiche patologie è esplosa l’accusa di voler limitare la lotta alla criminalità organizzata. Premesso che sul fronte della lotta alla criminalità organizzata non si deve arretrare di un millimetro, bisogna però dire che non tutto può essere letto attraverso quella lente.
Sono stati proprio gli interventi fatti nonostante il divampare di queste polemiche a portare oggi ad avere 53.174 detenuti, con una riduzione di circa 7.000 unità tra le persone in carcere.
Cosa si è fatto per fare fronte alla situazione nelle carceri con il divampare dell’epidemia?
Si è in primo luogo intervenuti con un provvedimento, il 18 di marzo, che prevede che coloro che hanno da scontare ancora meno di 18 mesi di pena possano usufruire di una procedura semplificata per l’accesso alla detenzione domiciliare. Si tratta in realtà di una misura prevista da una legge, la 199 del 2010, che, attraverso il provvedimento del 18 marzo ha fatto sì che potesse usufruire della procedura semplificata chi non rispondeva dei reati 4 bis, quelli più gravi e relativi alla criminalità organizzata, e non aveva preso parte alle violenze in carcere delle settimane precedenti.
Oltre a queste specifiche misure sono intervenute altre due indicazioni. Da un lato quella, di fronte al rischio di virus in carcere, ad accelerare le procedure nei Tribunali di sorveglianza. La misura di marzo prevedeva infatti, per chi doveva scontare più di 6 mesi, l’applicazione del braccialetto elettronico. Una procedura sempre complicata. Per effetto della norma e dell’accelerazione delle procedure che ne è derivata noi abbiamo ad oggi 3.030 detenzioni domiciliari e 798 casi di applicazione del braccialetto elettronico.
È intervenuto poi un ulteriore segnale culturale, a cui ha contribuito anche una indicazione del procuratore generale della Cassazione che invitava a ricordarsi che la misura cautelare in carcere rappresenta una estrema ratio, e che ad essa vanno quindi preferite altre misure.
Degli oltre 7.000 detenuti in meno rispetto all’inizio del contagio, se 3.000 sono detenzioni domiciliari, il resto è fatto anche di minori ingressi negli istituti di pena, sia perché ci sono stati meno reati in questa fase di lockdown, sia perché c’è stato un minore ricorso alla custodia cautelare, sia infine per l’accelerazione impressa all’esame di misure alternative giacenti. In questo quadro si è aggiunta anche l’indagine volta a rilevare quei casi che per età o per presenza di patologie potevano essere più suscettibili di contagio e a riesaminare quindi il loro caso. In questa indagine si sono inserite anche persone riferibili a forme di criminalità organizzata.
A fronte dei 7.000 detenuti in meno di cui parlavamo prima, quanti sono questi casi?
Il numero che si legge sui giornali, che riferiscono di 376 persone, va esaminato con attenzione e facendo dei doverosi distinguo.
Tra queste vi sono solo 3 persone catalogate come articolo 41 bis, e quindi appartenenti alla grande criminalità mafiosa, una sola classificata come “alta sicurezza 1”, cioè fino a poco tempo fa classificata 41 bis, e poi 372 persone classificate come “alta sicurezza 3”, cioè inserite nel brodo di coltura della criminalità organizzata.
Bisogna però tenere presente che queste persone, se hanno potuto usufruire della detenzione domiciliare è perché avevano un residuo di pena pari al massimo a 18 mesi. Inoltre, poiché il provvedimento indicato non si applicava ai reati di mafia vuol dire che questi soggetti avevano già scontato per intero la parte di pena riguardante l’appartenenza alla criminalità organizzata.
Di questi ultimi 372, peraltro, ben 195 erano persone non ancora condannate con sentenza definitiva, per le quali, quindi, il beneficio è consistito nella conversione della misura cautelare in carcere in una di arresto a casa. Questi casi, peraltro, sono di competenza delle corti giudicanti e non della magistratura di sorveglianza, competente solo per i detenuti condannati in via definitiva.
Per le misure prese dalla magistratura di sorveglianza, che esamina il percorso compiuto dal singolo detenuto, non è da escludersi un riesame del percorso fatto, che è anzi già previsto. Per quelle date dal giudice di merito, invece, sarebbe grave se si pensasse che l’esecutivo possa intervenire con indicazioni su decisioni che competono invece soltanto al giudice di merito.
Circa i tre casi prima citati che hanno beneficiato di provvedimenti previsti per il Coronavirus pur se in regime di 41 bis, bisogna inoltre fare alcune precisazioni.
Premesso che ritengo che la necessità di interrompere le comunicazioni tra le organizzazioni criminali e le persone detenute ad esse collegate sia doverosa nel caso in cui effettivamente le misure rispondano all’esigenza di interrompere questa comunicazione e non semplicemente a fini vessatori, e che ritengo sbagliato che una persona sia al 41 bis fino all’ultimo giorno di detenzione perché credo vada sperimentato un percorso di conoscenza della reazione di questa persona al ritorno in società, va considerato che la prima di queste persone, dell’età di 78 anni, aveva un residuo di pena da scontare di soli 9 mesi.
Se il giudice, in considerazione dell’età e degli altri specifici elementi valutati ha ritenuto fosse il caso di anticipare l’uscita dal carcere non mi pare vi sia alcun elemento per insorgere.
Circa il secondo dei casi che hanno destato clamore, quello di Zagaria, siamo di fronte a un detenuto che doveva fare dei cicli di chemioterapia che nell’ospedale di Sassari, a cui era indirizzato, non era possibile fare in quel frangente di emergenza da Covid-19. Da anni, peraltro, come garante dei diritti dei detenuti, avevo sollevato il problema del diritto alla cura per le persone al 41 bis in Sardegna, dove non vi sono strutture sanitarie dove i detenuti possono essere ospedalizzati in piena sicurezza.
Nel caso specifico di Zagaria il magistrato competente sostiene di aver chiesto più volte l’indicazione di una struttura adeguata per l’ospedalizzazione in sicurezza, senza avere risposta. Ha quindi fatto prevalere, in quel caso specifico e di fronte a un’inefficienza del sistema che non gli può essere imputata, l’esigenza della tutela della salute su quella di sicurezza. È necessario che siano presenti sempre delle strutture adeguate perché una persona, anche se detenuta, possa ricevere cure appropriate. La nostra Costituzione, nell’articolo 32 sulla tutela della salute dice che si tratta di un diritto fondamentale che vale per tutti, anche per i detenuti.
Il terzo di questi casi eclatanti concerne una decisione che ha riguardato una persona al 41 bis ma non condannata in via definitiva, che non ha preso il magistrato di sorveglianza ma una specifica corte che, fatte le sue valutazioni, avrà ritenuto di poterla prendere.
Mi sembra in sostanza che si sia determinato un grande allarme attorno a cose che hanno specifiche motivazioni che, più che il clamore della dichiarazione ad effetto, meriterebbero invece capacità politica in senso alto, ossia capacità di governare i processi, di controllare che non ci siano abusi senza utilizzare toni urlati e facendo capire alla collettività che sicurezza e tutela della salute delle persone non sono diritti in contrasto l’uno con l’altro.
In questo mi sento di dire che non c’è una responsabilità ministeriale nell’alimentare i toni urlati, ma anche che sarebbe un errore cedere a questo tipo di pressioni con provvedimenti che rischiano di segnare un passo indietro nel percorso intrapreso.
Ora che ci interroghiamo sulla ripresa delle attività, su una riapertura che è anche vista come un nuovo inizio, potendo indicare tre priorità dalle quali ripartire, quali individuerebbe?
In primo luogo riprendere gradualmente una normalità detentiva, ma con grande cautela perché all’interno del carcere valgono le stesse indicazioni che al di fuori di esso, ossia che sarebbe un errore pensare che tutto sia finito.
Quando in un sistema, come quello carcerario, continuano ad entrare altre persone è necessario adottare tutte le precauzioni del caso. Credo inoltre che il carcere debba sperimentare, passo dopo passo, anche delle ipotesi di riapertura verso gli affetti e verso la ripresa delle attività al suo interno.
Proprio durante il lockdown i detenuti hanno potuto usufruire, anche se limitatamente, di collegamenti via smartphone con i propri cari; un provvedimento che ha contribuito a calmare le acque quando si erano più agitate in concomitanza dell’interruzione delle visite.
In secondo luogo, continuare con la riduzione dei numeri della popolazione carceraria, perché ancora adesso siamo, con 53.000 detenuti, ben oltre i limiti di capienza previsti. Non dovremmo farci trovare impreparati da una eventuale ripresa del contagio. Invece di dire “indietro tutta” bisogna continuare sulla via della riduzione, per far coincidere quanto meno posti disponibili e presenze. E dobbiamo soprattutto garantire tutte le tutele alle persone che lavorano in carcere, polizia penitenziaria ed educatori, che meritano lo stesso plauso che abbiamo riservato al personale sanitario.
Infine, occorre non abbandonare alcune pratiche innovative che abbiamo sperimentato essere positive, a partire dal già citato collegamento con le famiglie via smartphone.
Comunicare con le famiglie per quei 44.000 detenuti che nulla hanno a che fare con l’alta sicurezza e portare avanti alcune forme di comunicazione con i propri ambienti di provenienza, sapendo cogliere elementi positivi anche da un’esperienza negativa come quella che abbiamo vissuto.
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