La sinistra, il capitalismo e il mercato
Troppo facile vantarsi a urne chiuse e risultati festeggiati, ma ho sempre dubitato dell’attesa grande vittoria della signora Le Pen. Arrivata prima alle elezioni europee, certo. Ma altrettanto certamente non gradita alla maggioranza degli elettori, quel circa 69 per cento che non l’aveva votata. E tanti altri tra i non votanti, che poi sono in parte corsi alle urne proprio per manifestare questa scelta: non possiamo consegnare il paese alla destra estrema.
Inoltre, detesto Macron e il suo modo di fare politica, ma quando ha deciso di andare subito al voto non nego di aver apprezzato il suo coraggio tattico, e forse più che tattico. Un primo risultato paradossale è stato spingere la sinistra a unirsi e a diventare motore della reazione al rischio di destra.
Qui in Italia, alla vigilia del secondo turno, c’è stato un proliferare di voci preoccupate sul rischio che si rimanesse abbagliati da questa sinistra francese, larga, plurale, e sbilanciata verso il partito dell’esecrabile Mélenchon. Il quale però, tra uno slogan a effetto e l’altro, ha detto subito che bisognava fare le desistenze a favore degli odiati macroniani contro i candidati del Rassemblement National.
Un estremismo stranamente realistico? Mi è già capitato di ricordare che anche il Marx del “manifesto” scriveva che i comunisti, laddove siano in gioco alleanze determinanti per gli interessi di classe, scelgono «i democratici».
I problemi oggi sono diversi da quelli aperti nel 1848. Ma non proprio del tutto. L’aspetto farsesco della situazione mi sembra questo: Tony Blair si è precipitato a dare una serie di “consigli”, con uno scarso senso dell’opportunità, al neo primo ministro laburista Starmer, che forse si è sbilanciato in affermazioni troppo di sinistra, come chiedere un cessate il fuoco a Gaza e il riconoscimento di uno Stato ai palestinesi, il rifiuto di proseguire la politica di deportazione di immigrati in Africa. Blair insiste invece sulla priorità di reprimere l’immigrazione irregolare per non rischiare il successo del populismo di Farage.
Riecco la ricetta oltre che assurda mi sembra già usurata: la sinistra può vincere contro la destra attuando direttamente, e più rigorosamente, le sue stesse politiche!
La sinistra invece dovrebbe sottrarre alla destra il voto che una parte sempre troppo ampia dei cittadini le assegna dando risposte diverse al disagio che soprattutto strati popolari e di ceto medio impoverito esprimono con quel voto.
Qui ci vorrebbe un pensiero a sinistra molto radicale, per riconiugare da capo parole appesantite da qualche secolo di fraintendimenti più o meno tragici: capitalismo e mercato.
Il capitalismo, per dir così abbandonato a se stesso, cioè all’egoismo materiale e alla competizione accesa fino alla guerra, non funziona. Distrugge il pianeta e per quanta ricchezza monetaria e materiale produca, solo in troppo piccola parte viene redistribuita, e comunque costringe a un modo di vivere che alla fine produce infelicità e malattie.
Ma bisognerebbe prendere finalmente atto che il rimedio non può essere quello di immaginare un potere supposto saggio che rimette il mondo a posto facendo decidere tutto allo Stato, limitando se non eliminando il mercato.
Andrebbe ripresa una intuizione troppo dimenticata del femminismo della differenza quando ha detto che al mercato, per sovvertirlo, bisogna portare tutto: non solo lavoro, merci e denaro, ma sentimenti, affetti, relazioni, capacità di gestire non mortalmente i conflitti, e i desideri più profondi. Non solo regole, necessarie, per mitigare il suo carattere selvaggio (oggi invocate anche da chi il capitalismo lo difende). Ma una vera rivoluzione simbolica.
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