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La sfida di Bonaccini al partito romano. Pesa l’ombra di Renzi

La sfida di Bonaccini al partito romano. Pesa l’ombra di RenziStefano Bonaccini al lancio della sua candidatura – LaPresse

Il personaggio Il governatore emiliano parte da favorito: ma è debole nel sud. Odia le correnti, nel 2013 però saltò da Bersani al rottamatore

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 22 novembre 2022

Alla leadership del Pd pensava seriamente già dal gennaio 2020, dopo l’inattesa (almeno nelle proporzioni 51 contro 43%) vittoria contro la candidata di Matteo Salvini alle regionali in Emilia Romagna.

CONTRO STEFANO BONACCINI non c’era (solo) l’attuale sottosegretaria Lucia Borgonzoni, ma il capo leghista in prima persona, reduce dal 34% delle europee e dal disastro del Papeete, che batté l’Emilia palmo a palmo per oltre due mesi. Quella vittoria conquistata a mani nude (e con il supporto determinante delle sardine che risvegliarono l’orgoglio degli elettori di sinistra) lo proiettò sulla scena nazionale, tanto da ispirare un libro-manifesto «La destra si può battere».

Nell’autunno del 2020 si votò anche in Toscana, Puglia e Campania: se quelle tre sfide fossero andate per il Pd, Bonaccini (col nuovo look Ray-Ban e barba hypster) era pronto a dare la spallata all’amico Nicola Zingaretti. Matteo Renzi aveva scommesso forte sull’amico Stefano, i rumors di quei giorni raccontavano che era pronto a rientrare nel partito, avendo già capito che la sua Italia Viva era nata morta. Zingaretti invece vinse le regionali, e il progetto finì in cantina.

NEL FRATTEMPO, per la fortuna del governatore emiliano, il peso politico di Renzi è precipitato, fuori e dentro il Pd. E lui stesso ha capito che gli endorsment dei vedovi (e delle vedove) dell’ex rottamatore (da Marcucci a Morani, il collega toscano Giani e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori) gli fanno più male che bene.

E ha capito anche che deve temperare la sbornia riformista con una rinnovata attenzione ai temi di sinistra. Che dopo pandemia e guerra i riformismi degli anni 90 e le spinte ultraliberiste non tirano più. Soprattutto se la sua diretta competitor sarà la sua (ex) vicepresidente Elly Schlein.

E TUTTAVIA L’OMBRA di Renzi continua ad aleggiare sulla sua corsa verso il Nazareno. Non solo per il sostegno palese della corrente guidata da Lorenzo Guerini e dal redivivo Luca Lotti (Orfini ancora non ha deciso). Ma anche perché di lui il fiorentino non ha mai parlato male (caso più unico che raro).

E nessuno dimentica il suo ruolo nello snodo cruciale tra il 2012 e il 2013. Quando in pochi mesi passò, come segretario regionale del Pd, da golden boy di Bersani a capo della campagna che condusse Renzi alla guida del partito. Un legame che non si è mai interrotto, neppure quando Bonaccini è diventato governatore.

Anzi, fu proprio il fiorentino il più netto nel sbarrare la strada al suo principale rivale, Matteo Richetti, che non partecipò neppure alle primarie. Non andò benissimo: si votò nei mesi del Jobs Act, alle urne emiliani andò solo il 37% (un record per quella regione) e Bersani parlò di «sciopero del voto». Negli anni successivi c’è stato anche lo scambio dello spin doctor: Marco Agnoletti è passato alla corte del governatore, suggerendo nel 2020 di parlare solo di Emilia e non di politica nazionale. E ora per la corsa al Nazareno è stato richiamato in servizio.

OGGI IL CARDINE DELLA SUA campagna, iniziata domenica nella nativa Campogalliano (Modena), è “tutti contro Roma”. Intesa come gruppo dirigente nazionale che Bonaccini vuole rottamare, sostituendolo con i «territori», parola abusata nel lessico dem, che poi vuol dire gente che si è fatta le ossea nelle amministrazioni locali.

Anche del sud, anche se quello è il vero punto debole del governatore: vuoi per la sua adesione all’autonomia differenziata, vuoi perché il suo pragmatismo emiliano funziona meglio dalla Toscana in su. Nona caso una delle sue prime tappe sarà a Bari, dove gode del sostegno del sindaco Antonio Decaro. Ma i primi sondaggi dicono che sotto Roma il governatore modenese non tira. E lì dovrà lavorare sodo.

DALLA SUA HA IL FATTO di non venire da una ztl: madre casalinga e sarta, padre camionista diventato padroncino, Bonaccini viene dal popolo, usa un linguaggio che «devono capire nei bar», e dunque al suo arco avrebbe le frecce per rendere il Pd meno snob. Per ora ha parlato più al partito che alle persone, esordendo con una tirata contro le correnti: «Mai più selezioneremo le classi dirigenti con quel metodo, che premia solo la fedeltà e ci fa perdere voti. Io non ho mai parte di una corrente, si vive benissimo».

IERI SU LA7 HA RIBADITO che resterà comunque alla guida della regione fino al 2025: «Saprò conciliare i vari impegni, per sei anni sono stato anche presidente della conferenza delle regioni». Se il sindaco di Mantova Mattia Palazzi si schiera con lui (insieme a quelli di Torino, Rimini e Piacenza), quello di Bologna Lepore lo gela: «Siamo in attesa delle idee».

NON È UN MISTERO CHE la sinistra dem cercherà in ogni modo di sbarrargli la strada: con una candidatura come quella di Andrea Orlando (ma c’è chi spinge su Cuperlo) o stringendo un patto con Schlein; ancora non è deciso. «Se vince Bonaccini Conte si prenda tutta la sinistra», l’idea che circola.

E del resto, di fronte a chi suggerisce profonde riflessioni sulla crisi del capitalismo, lui risponde sbuffando: «Non è il momento di fare filosofia». Per ora non usa il bazooka contro i potenziali alleati: «Non vogliamo delegare ai 5 Stelle la rappresentanza della sinistra, così come al Terzo Polo quella dei moderati. Dicano cosa vogliono fare, ma senza di noi la destra non si batte».

Ieri una stoccata a Calenda, che via social gli aveva intimato di dire «qualcosa di riformista». «Surreale discutere su twitter». Di certo, la sua discesa in campo ha dato un’accelerata alla partita. Nei prossimi giorni anche i sindaci Dario Nardella e Matteo Ricci (Pesaro) sveleranno se si candidano.

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