La sfida della protesta sociale e l’effetto Coronavirus
Trump Down I discorsi sul voto sono attraversati e condizionati da alcuni interrogativi ricorrenti: quale sarà l’incidenza della pandemia e delle conseguenze sociali che ha avuto finora? Quale il giudizio sulla gestione della crisi da parte dell’amministrazione Trump? E come inciderà sui comportamenti elettorali l’inattesa sollevazione cresciuta dopo gli omicidi polizieschi di afroamericani?
Trump Down I discorsi sul voto sono attraversati e condizionati da alcuni interrogativi ricorrenti: quale sarà l’incidenza della pandemia e delle conseguenze sociali che ha avuto finora? Quale il giudizio sulla gestione della crisi da parte dell’amministrazione Trump? E come inciderà sui comportamenti elettorali l’inattesa sollevazione cresciuta dopo gli omicidi polizieschi di afroamericani?
La vittoria di Donald Trump sembrava impossibile quattro anni fa. Sembra di nuovo ragionevolmente impossibile. Nel 2016, almeno una parte degli statunitensi che hanno votato per lui non sapevano ancora quanto fosse inadeguato al ruolo di presidente, ora ne hanno avuto le prove. Dovrebbero bastare. Non c’è dubbio che siano state tante, troppe, le sue malefatte personali e politiche perché possa essere possibile la sua rielezione.
Eppure: come dimenticare che nel 2004 George W. Bush fu rieletto nonostante avesse scatenato due guerre: in Afghanistan, subito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, e contro l’Iraq a marzo del 2003. La ragione principale, si disse allora, è che non si cambia il comandante mentre una guerra è in corso. Che la «guerra» contro il coronavirus produca lo stesso effetto?
Che tutte le irresponsabilità e follie di Trump gli vengano perdonate come lo furono a Bush le menzogne dette per giustificare la guerra irachena?
La ragione, confortata dai sondaggi d’opinione, prevede la sua sconfitta. Ma è la stessa ragione a ricordare anche che nel 2000 Al Gore fu sconfitto da Bush – e da un sistema giudiziario comandato dalla politica – nonostante avesse raccolto 500.000 voti popolari più del suo antagonista, e che nel 2016 Trump fu eletto nonostante Hillary Clinton avesse avuto quasi tre milioni di voti popolari più di lui. Inoltre, in questi anni, Trump stesso e il suo partito hanno fatto di tutto per sabotare il voto dei potenziali oppositori, dal ridisegno ad hoc dei distretti elettorali all’innalzamento di ogni immaginabile ostacolo alla possibilità di esprimere tanto il voto di persona nei seggi, quanto il voto per posta.
Gli analisti tengono conto di tutto questo e anche della eventualità che i sondaggi sbaglino come nel 2016, e concludono che Trump dovrebbe comunque finire sconfitto. Però i più cauti hanno scritto che Biden deve vincere “a valanga” per essere sicuro che la vittoria non venga contestata e Trump sia costretto ad ammettere la sconfitta.
I discorsi sul voto sono attraversati e condizionati da alcuni interrogativi ricorrenti: quale sarà l’incidenza della pandemia e delle conseguenze sociali che ha avuto finora? Quale il giudizio sulla gestione della crisi da parte dell’amministrazione Trump? E come inciderà sui comportamenti elettorali l’inattesa sollevazione cresciuta dopo gli omicidi polizieschi di afroamericani?
Cominciamo dal fondo.
È altamente probabile che la popolarità delle mobilitazioni di massa e la nuova condivisione della domanda di giustizia sociale incentivino la partecipazione elettorale e il voto contro Trump, invece del contrario. Le immediate reazioni afroamericane all’omicidio di George Floyd e a quelli successivi sono state violente, incendiarie – quindi paurose – ma la grande e duratura mobilitazione che ha preso forma subito dopo è stata largamente non violenta, rassicurante. La sua ampiezza e la sua stessa inclusività, così ricca di componenti sociali diverse, hanno cancellato le paure.
Ma non del tutto. Contro lo spettro del «radicalismo socialista» e «anti-bianco» che si aggira per gli Stati Uniti, Trump ha chiamato a raccolta il peggio presente in rete e negli anfratti della società. Ha chiesto il voto alle casalinghe suburbane, dicendo loro di averle difese dalle pericolose invasioni di neri e ispanici («criminali» e «stupratori»). Ha legittimato le destre estreme («brava gente»), dai Proud Boys a Boogaloo, ai folli di QAnon. E non potendo criminalizzare tutto il movimento ha dovuto inventarsi la minaccia di ubiqui e bellicosi Antifa.
Il peso del voto degli antifascisti – i pochi veri, non i tanti delle fantasie trumpiane – non è paragonabile a quello che avrà quello degli estremisti di destra. Sono anch’essi una minoranza, ma più numerosa; fatta in prevalenza di maschi che si riconoscono nel machismo di Trump, nei richiami alla superiorità razziale bianca e nel rifiuto di ammettere la contagiosità del virus.
Sono questi i tratti che spingeranno la maggioranza delle donne e dei giovani – gli uni e le altre di ogni età, colore e condizione sociale – a votare contro di lui. Alle donne va il merito di essere state le prime a mobilitarsi contro Trump, uomo e presidente, a partire dalla grande manifestazione del 21 gennaio 2017, il giorno successivo alla sua investitura, e fino a ora. Saranno anche molti maschi bianchi, però, a non votare più per lui, allontanati dai suoi eccessi – le sparate demagogiche non funzionano per sempre – e dalla sua inaffidabilità nei lunghi mesi della pandemia.
I loro voti andranno a compensare il fatto che forse le minoranze «tradizionali» di neri, ispanici e asiatici – che rappresentano un quarto dell’elettorato – voteranno per Biden un po’ meno di quanto hanno fatto per Clinton e soprattutto per Obama.
Non i neri, comunque, per le «buone» ragioni derivanti dal fatto di essere quelli che hanno sofferto di più per i contagi, le morti e le perdite dei posti di lavoro a causa del Covid-19 e della stoltezza politica di Trump. E per le sue tante offese: disprezzo per la protesta seguita agli omicidi polizieschi e per Black Lives Matter, insulti nei confronti delle sindache nere e di Kamala Harris (“un mostro”) e così via, fino alla beffa finale: «Credo di avere fatto di più per la comunità nera di ogni altro presidente, e lasciamo perdere Lincoln, perché le sue buone azioni sono sempre discutibili». Nelle parole di Bernie Sanders, enough is enough.
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