Cultura

La scomoda eredità della Liberazione

foto partigianiPartigiani di Valeggio sul Mincio: inginocchiato sul cofano l’alsaziano Luc Colomb, che diede un contributo alla guerra di resistenza – Foto Wikipedia

Novecento «Processo alla Resistenza», il saggio di Michela Ponzani edito da Einaudi. Un volume che raccoglie riflessioni e ricerche sulle forme di criminalizzazione dell’esperienza partigiana

Pubblicato circa un anno faEdizione del 7 ottobre 2023

Sforziamoci di tralasciare, almeno per un attimo, l’altrimenti diffusa retorica della «storia dimenticata», quella che celebra il passato come una sorta di buco nero dove, agli eventi concreti, si sarebbe sostituita una mera narrazione in funzione degli interessi dei «poteri forti». Ciò che chiamiamo con il nome di storia, infatti, non è solo il riscontro del fatto che il discorso corrente (nella comunicazione dominante da parte dei media così come nell’opinione pubblica) possa essere fortemente viziato da categorie, immagini e pensieri di parte. Il fare storia, infatti, implica semmai indagare soprattutto su come sussista, in base alle palesi egemonie politiche e culturali del momento (e non in ragione di un oscuro disegno), l’accento su una molteplicità di aspetti piuttosto che su altri.

TUTTA LA COMPLESSA vicenda della ricezione e dell’eredità della guerra di Liberazione, dallo stesso aprile 1945 in poi, va quindi letta anche sotto questa lente. Evitando pertanto banalizzazioni nonché semplificazioni di maniera. Esattamente, invece, ciò cui anelano qualunquisti e conformisti di ogni risma e genere. La complessità della guerra partigiana si perde infatti dentro i meandri di una falsa «contro-storia», con un drastico capovolgimento delle parti. Si tratta di quell’approccio, per intenderci, che azzera tutto, nel nome di una fittizia «unità nazionale» (oggi chiamata «pacificazione») dalla cui assenza, invece, i «nemici dell’Italia» avrebbero saputo trarre giovamento. Per poi auto-incensarsi del tutto immeritatamente. Una pubblicistica di ampia diffusione, ha trovato in questi ultimi tre decenni un significativo riscontro di lettori. Dalla pagine più sofisticate dedicate alla «morte della patria» da parte di Galli della Loggia alla fluviale letteratura, a tratti inferocita, di Pansa. Dopo di che, poste tali premesse critiche, si entra a pieno titolo nel merito del libro di Michela Ponzani, Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica italiana, 1945-2022 (Einaudi, pp. 232, euro 28). Diverse questioni sono infatti sollevate dal suo testo, al netto delle cronache che vi sono ricostruite, sulla base dell’interpolazione di molteplici fonti (rapporti delle forze dell’ordine, documentazioni processuali, articoli della stampa quotidiana e periodica, soprattutto di estrazione locale), che ci restituiscono il quadro di un’epoca. Tra di esse, e come tali di particolare rilievo, sono quelle vicende che non rimandano al solo uso discrezionale, in chiave deliberatamente restauratrice, della magistratura – e quindi della somministrazione della stessa giustizia – ma ad una più generale opera di normalizzazione conservatrice: cancellare quindi, laddove possibile, l’eredità ancora recentissima della lotta di Liberazione. Trasformandola pertanto in una irrisolta commistione tra occasionalità e criminalità, tra ribellione e sedizione, disobbedienza e opportunismo.

UNA TALE PULSIONE, che di fatto attraversa un po’ tutta l’Italia, a partire da quella settentrionale, risponde a molteplici logiche, fino ad un certo punto ascrivibili al solo calcolo politico. Poiché ciò che essa testimonia è, semmai, un più generale percorso dove ciò che è stato – ovvero una commistione irrisolta tra segmenti del liberalismo ante-fascista e regime mussoliniano – emerge in tutti i suoi aspetti più radicati, destinati poi a non essere risolti con il nuovo ordine costituzionale. Si dà quindi come il parametro sul quale misurare l’accettabilità, o meno, della svolta prodotta dalla lotta di Liberazione. Nella misura in cui il partigianato ha reintrodotto, nella sfera dello Stato unitario, qualcosa che lo stesso Risorgimento si era incaricato, soprattutto dal 1859 in poi, di estromettere progressivamente, cioè la partecipazione in armi della collettività ai grandi moti di trasformazione in corso. Nell’Europa postbellica, all’epoca, era ancora presente la eco di tre eventi indice: le tumultuose sollevazioni borghesi del 1848; l’esperienza collettiva, ancorché sanguinosamente repressa, della Comune parigina nel 1871; le insorgenze popolari, generate dalla Prima guerra mondiale e poi variamente sedate. Con efferata brutalità. I fascismi continentali, a fronte della decadenza degli ordinamenti liberali, avevano tratto da ciò parte della loro legittimità, presentandosi come i soggetti che avrebbero ripristinato una qualche pratica di «ordine» e di «gerarchia». Nel momento in cui, dal 1945, tutto questo declinò tra i giganteschi flutti di uno scontro armato epocale, il conflitto tra legalità (quella istituita dai vincitori) e legittimità (derivante dai movimenti che nel frattempo si erano verificati dal basso, a partire dalla stessa lotta partigiana), rimase comunque a lungo irrisolto. Se da una parte valevano le leggi e le disposizioni degli Alleati, e con esse il bisogno di confrontarsi con una nuova minaccia, quella bipolare, dall’altro, esauriti i primi e veloci momenti di euforia per la fine della guerra, andava invece crescendo un senso di insoddisfazione.

NON DI MENO, come già ha avuto modo di sottolineare una storiografia consolidata, che trova in Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, (Editori Riuniti, 1999) un primo punto di sintesi, alla violenza inerziale che si trascinò ancora nel tempo, corrispondeva la restaurazione di un potere che non intendeva in alcun modo confrontarsi con quella idea di cittadinanza attiva, civile, e al medesimo tempo ribelle, della quale il partigianato era espressione. Gli eventi succedutisi, soprattutto sul piano giudiziario, con il ricorso alla magistratura, come ordinamento repressivo, spesso debitore dell’impronta fascista sia sul piano culturale che legislativo, si inquadrano in questa logica. Già Guido Neppi Modona con il suo pioneristico lavoro su Giustizia penale e guerra di liberazione (Franco Angeli, 1984) aveva avviato, ben quarant’anni fa, una ricognizione in tale senso. All’epoca ancora motivata dal riuscire a tradurre una lunga e tortuosa stagione di sforzi di democratizzazione degli apparati dello Stato (quella intercorsa nei due decenni precedenti) all’interno di una più generale riconsiderazione del significato della lotta partigiana, e del suo trattamento giudiziario, a quarant’anni dalla sua conclusione. Così come, due decenni dopo, il volume collettaneo a cura di Luca Baldissara e Paolo Pezzino, Giudicare e punire. Processi per crimini di guerra tra diritto e politica (L’ancora del Mediterraneo, 2005), spostava il fuoco verso una serie di questioni, a bipolarismo internazionale oramai da tempo conclusosi, che richiamavano il nesso tra violenze belliche, soglie di accettazioni e di rigetto, rapporto tra giustizia e classi dirigenti, percezioni e rielaborazioni dei lutti come esperienze di trapasso collettivo da vecchie a nuove società.

I LIBRI QUI CITATI sono solo alcuni dei possibili antecedenti al volume di Ponzani, che raccoglie in sé vent’anni di ricerche e riflessioni sulla criminalizzazione dell’eredità della guerra partigiana nella storia repubblicana. Come tale, è anche una risposta alle narrazioni dominanti in un certo senso comune, al pari di una parte della pubblicistica ad ampia diffusione, che associano la lotta di Liberazione ad un esercizio stragista, annullano le differenze tra carnefici e vittime, per poi ribaltarne i ruoli, rileggono – in chiave chiaramente filofascista – gli eventi dall’8 settembre 1943 in poi per ricavarne una netta rivalutazione morale, prima ancora che politica, degli sconfitti. Ponzani accompagna il lettore attraverso i diversi livelli di criminalizzazione istituzionale, laddove questi si verificarono, di cristallizzazione retorica del ricordo, di parificazione delle violenze e di annichilimento del significato dell’azione partigiana come atto di radicale disobbedienza, fondato su uno spontaneo principio di eticità. Fa quindi effetto il riscontrare analiticamente come certi canoni ideologici che sono transitati dal fascismo alla Repubblica, si ripropongano con potenza di inerzia nel discorso di senso comune. Uno tra tutti, le anacronistiche e surreali polemiche su via Rasella. Solo per uno tra i tanti, possibili richiami.

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