È un flusso senza fine. Con lo sport che si è messo da tempo in prima fila a protestare, ad alzare idealmente cartelli, a organizzare i picchetti per la protesta. La lotta per i diritti civili dei neri d’America, sono passate decine di anni, episodi di violenza sanguinosi, eppure pare essere sempre una maratona ai nastri di partenza con i blocchi alle caviglie, come negli anni Sessanta con la presa di coscienza del loro status da parte degli afroamericani.
Pochi giorni fa una star della National Football League, Colin Kaepernick, San Francisco 49ers, ha deciso di non alzarsi in piedi per l’esecuzione dell’inno nazionale americano prima di un match di preseason contro i Green Bay Packers. Mentre The Star Spangled Banner era cantato da tutto lo stadio, lui invece era seduto in disparte, unico dei giocatori in campo. Se ne erano accorti in pochi ma ecco la tecnologia, uno scatto di un tifoso dagli spalti per alimentare un caso che s’amplifica, si gonfia ora dopo ora.
Colin Kaepernick
«Non c’è da mostrare orgoglio per la bandiera di un paese che opprime la gente di colore e le minoranze. Per me questa presa di posizione è ben più importante del football e sarei un egoista se mi girassi dall’altra parte. Ci sono corpi per le strade e gente che non paga le conseguenze per aver assassinato qualcuno»Sì, le ferite dei neri sanguinano ancora. Ed è evidente che Kaepernick si riferisse alla polizia americana che spesso l’ha fatta franca e al sostegno a Black Lives Matter («Le vite dei neri contano»), il movimento per il risveglio dei diritti civili dei neri americani che sta facendo a fette la bandiera a stelle e strisce da un paio di anni. Trayvon Martin (il movimento di Black Lives Matter è nato dopo l’assoluzione del poliziotto che ha tolto la vita al 17enne e disarmato Martin), Eric Garner, Michael Brown, due anni fa. E nelle scorse settimane Alton Sterling a Baton Rouge, Louisiana, Philando Castile in Minnesota. Afroamericani uccisi da poliziotti bianchi, decine e decine di arresti tra i manifestanti, lo script è sempre lo stesso, indignazione, rabbia, la furia incanalata in manifestazioni, quasi sempre pacifiche.
Una lotta ininterrotta per le strade per denunciare, portare agli occhi di tutti la violenza della polizia e la discriminazione verso i neri. E un’estate divenuta via via incandescente per la strage alla veglia di Dallas, l’afroamericano Micah Johnson che uccideva cinque agenti, quel sottile filo ancora esistente tra bianchi e neri che si spezzava, forse definitivamente, con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama che prendeva la parola certificando l’esistenza della «questione nera» anche e soprattutto durante il suo mandato alla Casa Bianca.
Una questione che è entrata prepotentemente anche nella campagna elettorale per la Casa Bianca, con Donald Trump che sparge benzina sul fuoco quasi ogni giorno, cavalca l’onda, la sua onda, fino all’8 novembre, il giorno delle elezioni, sulla quale fanno surf personaggi pericolosi e razzisti come il governatore repubblicano del Maine Paul LePage, secondo cui il 90% degli arrestati per droga nel suo stato sono neri o ispanici.
Kopaernick è andato a colpire l’inno nazionale, recitato a memoria da tutti gli atleti americani prima di una partita di basket, football, baseball, hockey, inno che è uno degli elementi costitutivi dello sport americano, un rito spesso anticipato da ringraziamenti, applausi e cerimonie per i militari spediti al fronte, veterani, con il dipartimento della Difesa finito anche sotto accusa per i corposi assegni allungati a Nfl, Nba, Mlb e Nhl per gli omaggi pre gara ai militari.
Per questo motivo che la Lega, partendo dalla franchigia di San Francisco, ha provato a mimetizzare il caso, l’ammutinamento all’inno nazionale, sgonfiarlo come un pallone da football appunto ma è impossibile, la tensione era alta, ora lo è ancora di più. E ovviamente la generalizzazione del problema, come avvenuto con il gesto di Kaepernick, afroamericano cresciuto da genitori bianchi, rischia di aggiungere sale sulle ferite.
Non è il primo caso di sportivo che boicotta The Star Spangled Banner, il più celebre si ebbe con il cestista Nba Mahmoud Abdul Rouf – Chris Jackson prima di abbracciare la fede musulmana – che 20 anni fa con la casacca dei Denver Nuggets riteneva l’inno nazionale un simbolo della tirannia. Era invece risentito per l’invasione americana in Iraq il portoricano Carlos Delgado dei Toronto Blue Jays (Major League Baseball), che 12 anni fa si rifiutò di onorare God Bless America durante il break del settimo inning, una tradizione inaugurata dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
Sul palco vestiti di nero, invitavano i colleghi a piazzarsi in prima linea contro la discriminazione razziale, invitando i colleghi a usare la loro influenza ma anche le loro risorse per «ricostruire, rafforzare, aiutare a cambiare», spiegava dal palco James, un ragazzo di 203 centimetri scampato a un ghetto di Akron, Ohio, senza padre e con mamma dalla presenza altalenante che dopo aver raggiunto il successo mai ha omesso la sua voce negli episodi di discriminazione sui neri. Dopo di lui Anthony, stella dei New York Knicks cresciuta in un ghetto di Baltimora, ricordava Jesse Owens, Jackie Robinson, Muhammad Alì, Kareem Abdul Jabbar, Billie Jean King e Arthur Ashe, Bill Russell, simboli afro passati e divenuti leggende attraverso ingiustizie (Russell si vide rifiutare una camera d’albergo in North Carolina per il colore della pelle alla fine degli anni Cinquanta, quando era già il più forte giocatore della Nba) abusi, discriminazioni, lo specchio di quello che gli sportivi americani forse oggi dovrebbero rappresentare.