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La rivoluzione di Bernie, un futuro in cui credere

La rivoluzione di Bernie, un futuro in cui credere

Sanderistas Sanders lancia «Our Revolution», una strategia politica per insediarsi nella società americana e per divenirne una forza culturalmente egemone

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 28 agosto 2016

Il ferro è caldo e va battuto: in sintesi sembra questa la strategia di Bernie Sanders e dei suoi all’indomani della Convention di Philadelphia. Per quanto si sia conclusa in una sconfitta, la campagna per le primarie di Sanders è rimasta ineguagliata per il numero di persone mobilitate e di donazioni ricevute (con un contributo medio di 30 dollari).
E Sanders ha intenzione di non sprecare il capitale politico che è stato capace di accumulare: del resto, l’aveva detto che non sarebbe finita con la Convention e – dopo aver congegnato la campagna elettorale più trascinante della storia d’America e con una lotta per l’egemonia nel Partito democratico ancora tutta da giocare – non intende certo tornare come se niente fosse al suo seggio di Senatore del Vermont.

Un capitale politico

La campagna di Clinton è giunta esausta all’appuntamento con Trump. La retorica elettorale dell’establishment democratico si regge sulla filosofia del meno-peggio e sulla paura che «such a man» diventi presidente: l’evocazione della paura – l’arma che ha permesso a Trump di ottenere la nomination – gli viene ora rivoltata contro.
E, in fondo, questo argomento ha svolto la sua funzione persuasiva anche su Sanders, che ha accettato la sconfitta alle primarie e chiesto ai suoi sostenitori di appoggiare Clinton nella sua corsa inarrestabile verso la Casa bianca. Un sondaggio recente del Pew Research Center rileva che l’85% dei sostenitori di Sanders voterà democratico a novembre, ma anche che il livello di soddisfazione fra gli elettori sia ai minimi da decenni. Dopo la scelta sofferta di un (imbarazzato) endorsement alla sua nemesi, Bernie Sanders decide di gestire politicamente quell’insoddisfazione che registrano i sondaggi e lancia un nuovo soggetto politico, battezzandolo con un nome che continua la tradizione delle «parole che pesano» inaugurata con «I’m a socialist»: si tratta di Our Revolution.

Creature post Filadelfia

Our Revolution è un’organizzazione noprofit, una creatura post-primarie che nasce per convogliare le energie creative del movimento politico creatosi intorno a Sanders e si pone come obiettivi di rivitalizzare la democrazia americana, potenziare i leader progressisti e aumentare la coscienza politica generale. La logica di fondo è: «Election days come and go, but the struggle must continue».

E questa lotta, in particolare, è una lotta che mai prima aveva avuto tanto spazio nell’orizzonte delle elezioni americane.

Our Revolution è stata lanciata con una serie di email alla mailing list dei supporters: email che – fun fact – sono state considerate spam da Gmail, come tutte le precedenti della campagna di Sanders.

Sanders invitava i suoi a ritrovarsi tutti per seguire il suo primo grande discorso di ripartenza. Come da manuale di rivoluzione 2.0, il 24 agosto, alle 9 di sera sull’Atlantico, alle 6 sul Pacifico, decine di migliaia di sanderistas si sono trovati in più di 2.600 locations sparse per gli Stati uniti (salotti, backyards, sale in affitto e luoghi pubblici) per collegarsi in streaming con quel senatore del Vermont che ha dato una scossa inaspettata alla noiosissima scena politica istituzionale americana.
Our Revolution riassorbe l’attivismo politico e sociale messo in moto dalla campagna per le primarie e cerca di connetterlo con le esperienze di associazionismo disperse sul territorio che possono servire da infrastruttura per un nuovo movimento politico: un movimento che ambisca ad avere influenza sulla politica ufficiale, a tutti i livelli istituzionali.

«Brothers and Sisters»

Le donne e gli uomini del movimento («brothers and sisters», con l’appellativo usato da Bernie) sono chiamati a candidarsi per tutte le posizioni elettive che saranno rinnovate nei prossimi anni, dagli school board nei distretti amministrativi locali fino al Senato federale. L’8 novembre prossimo – e si tende a dimenticarlo offuscati dal troppo parlare di presidenziali – si voterà anche per l’elezione di undici governatori di Stato (tra i quali il Vermont di Bernie Sanders) e di 435 membri della la House of Representatives e per un terzo dei seggi senatoriali. Quanto al Senato, verrà eletta una cosiddetta Class, cioè 34 senatori, eletti in altrettanti Stati, in questo caso, tra gli altri: California, New York e Vermont (ma non è in gioco il seggio di Bernie Sanders, il cui mandato come junior senator scadrà nel 2018).

«Our Revolution – ha detto Sanders ai suoi sostenitori radunati a Burlington (Vermont) o raggiunti via web – è ispirata dalla storica campagna presidenziale Bernie 2016. Coinvolgerà centinaia di migliaia di persone che lotteranno dal basso per un cambiamento negli school boards, nei loro consigli municipali, assemblee legislative locali e federali.

Non solo: si occuperanno di questioni fondamentali come finanziamento della politica, ambiente, sanità, lavoro, questioni di genere, e faranno tutto quanto è in loro potere per creare un’America fondata sul principio della giustizia economica, sociale, razziale e ambientale». Sanders ha dettato la sua linea politica: Our Revolution è un progetto politico a lungo termine che aspira a mobilitare le nuove generazioni («dai 45 anni in giù») perché «se abbiamo intercettato la grande maggioranza dei giovani di questo Paese, – e menziona esplicitamente i giovani delle minoranze – significa che le nostre idee sono il futuro degli Stati Uniti d’America». Quella che Sanders dice di aver vinto è la «battaglia idologica».

Lo spazio che la stampa americana – e con quella americana quella globale – sta dando a Our Revolution è coerente con quello che ha dato al suo guru per tutti i mesi di campagna per le primarie: irrisorio.

Il New York Times si limita a riportare le vicende interne allo staff di Sanders (l’ammutinamento di vari membri dopo la nomina di Jeff Weaver – che fa campagne per Bernie da più di trent’anni – a presidente dell’organizzazione); al di là della questione del finanziamento all’organizzazione la polemica sullo staff rivela forse che esiste un comando verticistico e che la nostra rivoluzione si fa dal basso, sì, ma il suo apparato manageriale non ama la partecipazione democratica.

In certi quartieri dei berners corre la voce che Weaver rappresenti più un problema che una risorsa, mentre Claire Sandberg e Kenneth Pennington – in fuga dal comitato di Our Revolution – pare stiano navigando verso Brand New Congress.

Movimenti apartitici

Se Our Revolution è la gemmazione ufficiale della campagna «A future to believe in» – in altre parole: si può fregiare a buon diritto del marchio Bernie Sanders – il movimento dei berners ha, com’era prevedibile, messo al mondo anche qualche figlio illegittimo. Uno dei più eclatanti è proprio quello di Brand New Congress, idea di un gruppo di supporters nata come tentativo di pensare al post-novembre quando ancora Sanders era un possibile concorrente di Donald Trump.

Brand New Congress è (per ora) un gruppo informale che si pone gli stessi macro-obiettivi di Sanders (e riproduce la retorica anti-establishment), ma sceglie di concentrarsi sulle elezioni al Congresso del 2018. Bnc si presenta come una piattaforma apartitica di supporto a coloro – preferibilmente non politici di professione – che vogliono candidarsi alle primarie (democratiche o repubblicane: in caso di sconfitta si corre comunque da indipendenti) e condividono con Bnc alcuni punti programmatici: competenza («be good at what they do»), dedizione alla cosa pubblica («serving their people»), rinnovamento delle cariche (rottamazione).

Inoltre Bnc – che si propone in una struttura verticistica – chiede ai candidati che aderiscono al progetto un’adesione totale al programma («agree on the whole platform»), che richiama altre esperienze europee, autodichiaratesi a-partitiche, di discesa in politica attraverso l’antipolitica.
Infine Bnc è pronta a presentare propri candidati anche alle primarie repubblicane, qualora sia il partito più forte nel distretto in questione, scelta che la distingue da Our Revolution. Quanto al legame di questo progetto con Our Revolution, per ora si registra un mutuo ignorarsi.

Con il lancio di Our Revolution Sanders inaugura una strategia politica che riesce a sfruttare la flessibilità del sistema politico americano, aperto alle incursioni degli outsider, e che evoca una volontà di insediarsi in profondità nella società americana e di divenire una forza politicamente e culturalmente egemone, ma soprattutto autonoma dal Partito democratico.

Se all’indomani della Convention e dell’endorsement quasi obbligato a Clinton, Sanders e il suo movimento sembravano destinati ad essere cooptati all’interno del partito ora sembra che abbiano preso una strada diversa. Sanders potrà così rispettare il patto con Clinton ma allo stesso tempo comincia a costruire un’organizzazione politica a partire dalle numerose cariche elettive che il sistema politica americano prevede.

Dall’altro lato, Our Revolution continuerà a dialogare con tutte i gruppi, come i Verdi di Jill Stein o i trotzkisti di Socialist Alternative, che hanno sostenuto o seguito con simpatia la campagna di Sanders ma che non ne hanno condiviso l’endorsement a Hillary, e che appoggiano Stein alle Presidenziali di novembre.

Our Revolution, invece, guarda ben al di là delle Presidenziali, anche se non manca di volerne influenzare l’esito: ambisce ad essere i luogo di il catalizzatore di tutte le esperienze politiche di base che, pur animando la vita politica del Paese, ne restano ai margini perché disperse.

Dal 2011 gli Stati uniti sono stati attraversati da un ciclo di lotte ampio e innovativo: la battaglia del Wisconsin (la più grande mobilitazione operaia e anti-austerity nella storia dell’America contemporanea), Occupy Wall Street, la «Fight for 15$» (la lotta dei lavoratori dei fast food), le mobilitazioni studentesche per l’accesso all’educazione superiore gratuita, la People’s Climate March e, soprattutto, Black Lives Matter.

La campagna di Sanders non è certo l’espressione a livello elettorale di queste esperienze – anzi, ha dimostrato dei limiti nel dialogarci – tuttavia emerge dalle stesse dinamiche. Ma ad ora non è dato sapere se Our Revolution sarà lo strumento che finalmente coalizzerà questi soggetti, organizzerà il 99% e preparerà la resa dei conti con gli oligarchi di Wall Street.

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