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La rivolta «fuori»: consigli ai ribelli, notizie al mondo

La rivolta «fuori»: consigli ai ribelli, notizie al mondoProtesta in solidarietà con la rivolta iraniana a Los Angeles – Ap/Richard Vogel

Iran Il ruolo della diaspora: raduni in Europa e diffusione delle informazioni raccolte tra amici e parenti nel paese. Sui social i medici danno istruzioni di pronto soccorso, ex poliziotti come proteggersi dai gas. Tra il desiderio di una pressione internazionale e la rabbia per sanzioni che affamano solo il popolo

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 19 novembre 2022

Le proteste cominciate in Iran per la morte di Mahsa Amini hanno portato a una mobilitazione ostinata, un moto spontaneo, ma con radici profonde.

Nelle ultime settimane c’è stato un chiaro incremento del livello di violenza, con immagini di guerriglia urbana in molte città del paese e una decisione del parlamento iraniano di prendere provvedimenti per almeno 1000 manifestanti arrestati con accuse potenzialmente punibili con la pena di morte.

NON SONO le prime grandi potreste in Iran dalla rivoluzione islamica, ma sono forse quelle con più risonanza internazionale dal 1979. Gli iraniani all’estero, tanto attivisti, giornalisti, sportivi, personaggi dello spettacolo, quanto persone comuni, portano la loro voce nelle piazze e sui media occidentali a sostegno di chi manifesta in Iran.

Si tratta di una voce per cui non è scontato oltrepassare i confini, ma che ha molto da dire su quali siano le chiavi di lettura e i significati che stanno dietro agli eventi di oggi in Iran.

F. partecipa alle proteste in Germania dove si è trasferita per studiare matematica. In questo momento più che mai vuole prendere parte a sostegno degli studenti, qualcosa che aveva provato a fare anche quando era all’università in Iran, senza mai vedere risultati. Sentendosi diversa dall’ambiente in cui viveva, F. ha cominciato a sognare una vita all’estero.

«È doloroso seguire le notizie ogni giorno, vedere che le persone stanno morendo, che c’è il sangue per strada, gli spari, gli arresti violenti. Mi sono unita alle manifestazioni di sostegno a Berlino, abbiamo marciato in modo pacifico, educato, senza sporcare. Gli slogan erano “libertà per l’Iran”, evitando di spingere per una richiesta di un settore o una classe sociale specifica, ora più che mai è importante dare un messaggio di unità».

IL 22 OTTOBRE più di 80mila persone si sono unite a Berlino raggiungendo la città anche da altri paesi europei con autobus organizzati per partecipare alla manifestazione promossa dall’associazione delle famiglie delle vittime del volo PS752. In tantissime altre città nel mondo, anche in Italia, le persone si sono radunate tramite gruppi di iraniani all’estero o associazioni locali.

«Partecipano soprattutto iraniani, ma anche europei, amici, colleghi. Ho finalmente visto che qualcosa è cambiato nella loro percezione, distinguono il popolo dal regime».

Molti iraniani all’estero sentono l’urgenza di partecipare perché quello che sta succedendo in Iran è un momento storico quanto vulnerabile. Sentono l’esigenza di informare gli altri perché in Iran è difficile avere delle fonti di informazione che non vengano prese di mira dalla censura o dalla repressione delle autorità.

«Per chi è in Iran adesso è molto rischioso. All’inizio pensavo che avrebbero presto soppresso le proteste e che sarebbero scoppiate ancora, per qualcos’altro, per poi spengersi di nuovo, e così via. Succede sempre così, la repressione diventa estenuante e non è possibile continuare a protestare, adesso invece sono due mesi che la gente è in strada a gridare. Una sera i miei amici all’università di Teheran sono stati costretti a rimanere chiusi nel dormitorio, non potevano neanche uscire sul terrazzo perché la polizia stava sparando davanti all’edificio. Mentre una amica protestava all’entrata di quella stessa università, qualcuno ha condiviso una foto con il suo volto visibile su un gruppo Telegram i cui amministratori sono stati arrestati. Le immagini sono adesso nelle mani delle autorità e lei teme di essere identificata».

F. CERCA di trasmettere in Europa quello che le riferiscono i parenti in Iran, gli amici sui social media e i canali basati all’estero in lingua farsi. Allo sforzo collettivo della diaspora iraniana si uniscono anche i medici che sui social network danno istruzioni di pronto soccorso, egli ex poliziotti che spiegano come proteggersi da proiettili e lacrimogeni.

«Se un anno fa, quando ero ancora in Iran, mi avessero detto che sarebbe successo questo, non ci avrei mai creduto – dice P., un dottorando iraniano che ha partecipato alle manifestazioni di Parigi – Le persone si sentivano senza speranza, ero uno di loro. Adesso hanno una luce negli occhi quando parlano del futuro dell’Iran. La gente si sta unificando, mette da parte i conflitti e gli argomenti controversi per focalizzandosi su qualcosa di più grande».

P. non si definisce un attivista, ma ritiene che in questo momento sia necessario essere attivi: si raduna con il suo gruppo di amici non solo per partecipare alle manifestazioni in sostegno della causa iraniana, ma anche per scambiare idee, informazioni e opinioni.

«Non è immaginabile che sia successo tutto da un giorno all’altro, da quando hanno ucciso Mahsa. Da più di un secolo gli iraniani hanno soprattutto tre richieste: giustizia, indipendenza e libertà. La rivoluzione che portò la monarchia a dotarsi di un parlamento nel 1906 nacque dalla richiesta di giustizia. La rivoluzione islamica portava con sé la richiesta di indipendenza, in quel momento, vero o no, le persone pensavano che lo scià fosse un burattino nelle mani di potenze straniere. Il movimento attuale include moltissime richieste, dalla parità di genere all’hijab opzionale, dai diritti umani all’economia, dalla gestione dei disastri ambientali alla lotta alla discriminazione tra classi, povere, medie, ricche, e ancora tra etnie, lingue, religioni. Ogni singola ragione per ribellarsi ha le proprie radici nella mancanza di libertà e democrazia, ed è questo quello che la gente sta chiedendo oggi».

F. e P., sottolineano la spontaneità dell’azione dei manifestanti in Iran. Non c’è una pianificazione, le persone non sanno dove e quando ci saranno mobilitazioni, escono di casa, vedono il primo gruppo che protesta e si uniscono.

I RADUNI di manifestanti sono quindi contenuti in termini di numero dei partecipanti, ma la mobilitazione è distribuita geograficamente in tutto il paese, e anche nelle singole città si verificano più eventi in simultanea. Significa che le forze di sicurezza devono disperdersi per intervenire tempestivamente in luoghi diversi, senza poter prevedere dove, quando o quanta gente si unirà.

Ci sono tuttavia eventi e luoghi ricorrenti: le scuole, le università e le commemorazioni a 40 giorni dalla morte di alcuni manifestanti. Gli studenti del liceo che tornando a casa dopo la scuola cominciano dei piccoli cortei a cui i passanti si aggiungono. Gli studenti universitari si fanno da traino con gesti di disobbedienza civile all’interno degli edifici dell’università.

Tra le immagini recenti più iconiche ci sono quelle che mostrano l’interno dell’università di Sharif con gli studenti riuniti a intonare El pueblo unido jamàs serà vencido. E ancora, gli universitari che prendendo di mira il sistema di divisione degli spazi tra maschi e femmine, tirano giù le grate che separano le stanze della mensa per mangiare insieme.

La repressione è particolarmente violenta nelle zone dove vivono minoranze etniche e religiose, soprattutto in Sistan e Balucistan. Qui la polizia ha sparato proiettili veri ai raduni in memoria di alcuni manifestanti uccisi, occasioni particolarmente partecipate dove erano molti gli slogan anti-sistema.

P. vede un cambiamento nell’atteggiamento dei manifestanti nei confronti delle autorità: «Tre anni fa ho partecipato alle mobilitazioni a Teheran in supporto delle vittime dell’aereo abbattuto. Nessuno osava intervenire in caso di arresti. Per le autorità in borghese era facile disperdere la folla simulando uno sparo in mezzo al corteo. Adesso le persone si difendono dalle forze antisommossa, si accalcano attorno alle vetture della polizia per impedire che gli arrestati vengano portati via».

PER OVVIARE le autorità hanno usato anche le ambulanze per trasportare le persone in arresto, mentre alcuni feriti vengono trasferiti in carcere direttamente dall’ospedale. I lavoratori del servizio sanitario hanno denunciato tali pratiche scioperando per non essere associati al sistema di repressione.

Alcuni slogan amplificati dagli iraniani della diaspora dicono: «Non chiamatele proteste, questa è una rivoluzione». F. condivide questa opinione, convinta che qualcosa può cambiare soltanto se tutto il sistema cambia. Secondo P., «la rivoluzione non è una soluzione semplice, la fai quando non vedi altra scelta».

La generazione Z, quella che vediamo oggi sfidare con coraggio i simboli della rivoluzione islamica, è diversa da quelle precedenti che credevano in un cambiamento graduale, sia sociale che politico, ma ancora incluso in un compromesso all’interno dello stesso sistema della Repubblica islamica.

«Abbiamo tentato molte opzioni: i riformisti come Khatami, un conservatore ma senza carica clericale come Ahmadinejad, i moderati con Rouhani. Abbiamo provato a partecipare alle elezioni, o a boicottarle», spiegano M. e R., moglie e marito iraniani oggi residenti in Turchia.

Nel 2017 hanno sperato nel cambiamento promesso dai moderati. Poco dopo, per l’insostenibilità della situazione economica, hanno deciso di lasciare il paese e cercare lavoro all’estero.

M. è entusiasta della resistenza dei più giovani, uno sforzo che la sua generazione non è riuscita a fare. Auspica che il movimento continui a crescere e migliorarsi: «Se alcuni manifestanti hanno incitato slogan sessisti contro madri e sorelle delle forze di polizia, altri li hanno corretti ricordando che lo slogan è “donna, vita, libertà”, senza discriminazioni. Se chiamiamo questo movimento femminista è proprio perché intende includere tutti coloro che si sentono vittime collettive di questo regime, a partire dalle donne».

M. E R. VORREBBERO che la pressione dei governi occidentali e la visibilità globale possano aiutare il movimento costringendo le autorità iraniane a contenere la violenza, ma sono preoccupati per le sanzioni internazionali che isolano e impoveriscono la popolazione, favorendo invece chi è al potere.

Secondo R., la discriminazione in Iran è fondamentalmente basata su quanto si è vicini al regime: non si tratta solo di essere più o meno in disaccordo con i principi religiosi e rivoluzionari promossi dal governo, il sistema rimane saldo perché sono in molti a trarne vantaggio.

E se le sanzioni internazionali hanno contribuito a far schizzare i prezzi dei beni di prima necessità, anche alimenti e medicinali, hanno anche favorito la nascita di redditizi business basati all’estero per eludere le sanzioni, ma in mano a funzionari o militari della Repubblica islamica.

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