editoriale di prima pagina da «il manifesto» del 4 agosto 1980

Oggi Bologna si fermerà nello sciopero generale, e poi accompagnerà i corpi che ha disseppellito giorno e notte dalle macerie e cercato di strappare alla morte, come una città intollerabilmente colpita ed esasperata. E così il nostro paese, intollerabilmente colpito ed esasperato.

Non solo dai fiumi di sangue, fino a ieri provocato dalla filosofia delle Brigate rosse (colpiamo il tale come persona e ruolo), oggi da quella tipica del nazismo (gli uomini possono esser distrutti come bestie da macello), due ideologie diverse ma che in comune hanno l’uso della morte come strumento politico. Colpito ed esasperato dal sentirsi cartone di un oscuro tiro al bersaglio.

Così al dolore si unisce il senso di paralisi, cancellazione e impotenza. Se ieri, fino all’ultimo, molti hanno «sperato» nella disgrazia, era per risparmiare almeno questo: constatarsi nelle mani o di un gruppo cospirativo, o di qualche esterno o interno grande burattinaio, o di qualche paurosa escrescenza sociale, senza altri fini e ragioni che non sia l’esprimersi come distruzione. E neppur sapere a quale delle ipotesi dare credito.

Così oggi chi si fermerà nel lavoro o riunirà in assemblea si domanderà con collera: che fare? Contro chi? Come? E non saprà andare oltre la risposta che è nata sabato, spontaneamente, ostinatamente, da Bologna.

Spazzando via dubbi e non aspettando le incerte perizie, la città si è riconosciuta bersaglio di un gesto fascista, di una strage nera, e deposti i morti è scesa in piazza.

È stata sicuramente un’intuizione giusta. Ma quale fascismo? Quello che stava dietro alla strage di piazza Fontana? Una mente, una classe, un pezzo dello stato che nel 1969 volle sconnettere il movimento prorompente nell’autunno caldo, e gettando quei morti sul tappeto, e dipingendo di rosso le bombe che li avevano straziati, ottenne sicuramente questo risultato? Poi a quattro anni di distanza, sarebbe stato corretto il tiro e le bombe riconosciute di destra.

Conosciamo questa vicenda. Ma oggi che le sinistre non sanno che celebrare le loro molte crisi, hanno smesso di avanzare, stanno sulla difensiva, perché quella stessa mano si sarebbe mossa? Per appoggiare l’autunno caldo dei padroni? Oppure è il fascismo, in senso più lato, dei «grandi destabilizzatori»? Di esso si è parlato sia per gli attentati del 1974, sia per le Brigate rosse, fenomeno assieme sociale e politico sul quale, in seconda battuta, potevano giocare i servizi di potenze estere che vedevano di cattivo occhio l’avvicinarsi dei comunisti al governo. Poiché questo non piaceva né a Mosca né a Washington le supposizioni sono state le più varie; ma perché questi segreti stati maggiori avrebbero deciso la strage il 2 agosto del 1980, cioè al momento in cui il Pci non solo sta fuori del governo, ma al massimo dell’isolamento, e se mai proprio un’emergenza potrebbe rimetterlo nel gioco?

O un fascismo più inafferrabile e meno romanzesco sta riaffiorando come un’estrema piaga sociale, faccia di destra dell’eversione endemica, della vena di distruzione che percorre le moderne società e in Italia è moltipllcata, amplificata, proiettata in pubbliche sanguinose rappresentazioni dall’essere tutto, nel nostro paese (e per la sua maturità, non arretratezza) tradotto sempre anche in «politica»?

Cento persone potrebbero essere morte a Bologna e altre cento stare ancora fra vita e morte negli ospedali perché una banda asociale nazista si è procurata del plastico in un paese dove prospera il traffico di armi e di esplosivi e ha voluto vendicare gli assassini dell’Italicus rinviati a processo. Un simbolo, una distruzione, colpiremo per colpire. Non perché cada o si rafforzi un governo, senza piani politici a breve, senza sperare che l’Italia, terrificata, chiami l’uomo forte che non c’è. Intanto colpire, intanto sangue, poi si vedrà.

Può essere semplicemente questo fascismo. Ma allora il suo burattinaio sta molto più lontano di un servizio segreto — sta nell’ondata profonda di destra come annullamento del senso della vita personale e collettiva, suggerito dagli ultimi frutti del capitalismo e dei suoi imitatori: la produzione di morte, la scienza di morte, l’oscurità delle repressioni, l’azzeramento del valore dell’uomo. Chi ha deposto quella borsa nera fra la povera gente a Bologna appartiene, forse, a una di queste tre categorie. Forse non sapremo mai a quale. Ma nei tre casi, non è un nemico che sia semplice individuare né che sarà estirpato da un atto politico semplice.

Nei tre casi esso rinvia a uno stato infiammatorio acuto del paese e del suo contesto, che nessuna manifestazione e neppure semplice mutamento di formula di governo riuscirà a sanare.

Manifestare certo bisogna, tutti, perché gli sciagurati che hanno compiuto la strage sappiano che non hanno messo in ginocchio né Bologna né l’Italia.

Colpire il fascismo bisogna, perché certo chi ha colpito è stato incoraggiato dalla facilità con cui si è potuto uccidere il giudice Amato, che si occupava di inchieste fasciste, nella indifferenza della procura romana e nell’apatia dei pubblici poteri.

Certo, darsi un governo che non si limiti a balbettare quattro parole dietro ai funerali bisogna, perché lo spettacolo offerto negli ultimi mesi dalle istituzioni è per ogni destra un regalo.

E tuttavia, se questo orrore, che in forme diverse, da anni ormai ci attraversa, è il frutto d’una perdita di senso della vita individuale e collettiva, chi può sperare che bastino imponenti sfilate antifasciste o antiterroriste, una magistratura un po’ più seria, formule di governo un po’ migliori a restituirceli? Siamo visibilmente in una civiltà che si disgrega, perde di segno; muore e male.

Non ci salveremo senza ricostruire nel lavoro, nei rapporti fra gli uomini, nella persona, una «forma» diversa, un diverso modo di essere e di comunicare, un credibile segno positivo.

Quando sabato Bologna s’è rovesciata fuori dalle case verso quegli sconosciuti in pericolo, ha salvato i vivi, ha raccolto i morti, ordinata e autonoma, generosa e furente, efficiente e politica, rossa e esperta, non ha mostrato di essere una gente capace di governarsi e governare, superando i confini in cui gira attorno a se stessa e si rattrappisce la vecchia sfera politica? Se oggi, manifestando, si chiederà: che fare? come?, forse la vera risposta è: essere come sabato.

Prendere nelle proprie mani non solo gli interrogativi della distruzione e della morte, ma quelli della vita e della trasformazione; esigere che le siano riconsegnati.

Non sarà una strada breve, ma è l’unica non cieca. Per non averlo capito l’Italia è ammalata, è ingovernabile, secerne veleni, e la sinistra si ammala in essa. Dal capirlo può venire la salvezza; nessun altro ce la darà. Bologna lo dimostra.