La ricrescita del debito globale
Nuova finanza pubblica La rubrica settimanale a cura di Nuova finanza pubblica
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Gli anniversari e le ricorrenze se di carattere privato inducono al ricordo e alla celebrazione; se pubblici promuovono l’analisi e un bilancio temporale. Se si prende come riferimento il crollo dei mutui subprime di agosto 2007 l’anno scorso cadevano i dieci anni di Crisi Economica globale; se si prende invece la bancarotta di Lehman Brothers il decennale cadeva settembre scorso.
Il bilancio non pare precisamente positivo, tuttavia c’è la necessità di capire cosa è oggettivamente mutato e in che direzione per capire come incidere.
Può essere d’aiuto una nota del celebre istituto finanziario McKinsey, uno dei più importanti consulenti strategici d’impresa, che forte di un completissimo rapporto sulle evoluzioni della globalizzazione finanziaria dell’estate 2017, elenca per sommi capi in un articolo assai più breve i punti più rilevanti: il debito globale (pubblico+aziendale non finanziario+delle famiglie) è in crescita, passando da 97 trilioni (1tr=1000 miliardi di dollari) nel 2007 a 169 trilioni di oggi, passando da 207% a 236% sul Pil mondiale (se in termini assoluti è cresciuto molto, in rapporto al Pil l’aumento è meno impressionante perché quest’ultimo è cresciuto anch’esso).
Il debito pubblico era già in crescita nei paesi più avanzati, ma dal 2008 galoppa, e raddoppia (da 29 a 60 trilioni), raggiungendo una media del 105% sul Pil, mentre i paesi meno avanzati raggiungono solo una media del 46% sul Pil.
Fa eccezione in caso della Cina: il suo debito globale aumenta di cinque volte, ed il debito delle aziende raggiunge livelli da primo mondo, raddoppiando per il 163% sul PIL cinese.
Il debito delle aziende non-finanziarie vola da 37 a 66 trilioni a livello globale, ma 2/3 di tale aumento è dovuto ai settori privati dei paesi meno avanzati.
I flussi finanziari sono più che dimezzati; calano di meno gli investimenti diretti esteri (destinati all’acquisizione del controllo di imprese straniere), che sono considerati meno volatili.
I creditori non bancari hanno cresciuto le loro attività di 2,7 volte 8 da 4,3 a 11,7 trilioni; fondi speculativi come equity e hedge funds sono diventati creditori importanti.
Le cifre sono impressionanti: si conferma che gli Stati sono tanto più indebitati quanto hanno subito la crisi con minori tasse, stimoli fiscale e naturalmente il salvataggio delle banche. La globalizzazione finanziaria c’è ancora, ma di carattere più localistico e regionalistico: il calo dei flussi riflette delle strategie di investire più all’interno del proprio stato o in paesi limitrofi.
Le banche sono divenuto più robustamente capitalizzate ma meno profittevoli – soprattutto quelle europee. Se alcuni fattori di rischio sembrano diminuiti, se ne segnalano di nuovi: il debito delle aziende dei paesi meno sviluppati, soprattutto se in valuta estera; possibili bolle del mattone sebbene più localizzate; e la mina vagante della Cina, che oltre ad una crescita significativa del debito possiede un sistema bancario ombra di dimensioni difficilmente valutabili. E si citano una serie di innovazioni finanziarie di investimenti in base ad algoritmi che presentano rischi ancora sconosciuti.
Chiaramente McKinsey è un pilastro dell’ortodossia, per un bilancio più compiutamente anticapitalista si può risentire i dibattiti della Scuola Estiva di Attac. Ma anche le corazzate del capitalismo talvolta vanno ascoltate, se non altro perché come ci diceva Brancaccio al Attac “i grandi capitalisti leggono Marx e ne traggono profitto”. Chissà per quanti dell’altra parte si può dire lo stesso.
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