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La ricetta per essere un grande presidente Usa: morte e distruzione

La ricetta per essere un grande presidente Usa:  morte e distruzione

Stati uniti Dal 1948 la classifica dei Commander in Chief: i più apprezzati sono quelli che hanno portato il Paese in guerra, anche le più abiette come quella contro il Messico voluta da Polk. Poco quotato Van Buren che la aveva evitata

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 luglio 2023

Chissà se Joe Biden, dopo una lunghissima carriera politica, vuole usare il tempo che gli resta per entrare nella classifica dei Grandi Presidenti. Se fosse così si capirebbero meglio le sue politiche verso l’Ucraina, tra cui l’invio delle cluster bomb vietate dalle convenzioni internazionali: come aveva notato anni fa lo storico Robert Higgs, «Qualsiasi presidente che desideri un posto di prima fila negli annali della storia dovrebbe affrettarsi a trascinare il popolo americano in un’orgia di morte e distruzione».

FACCIAMO un passo indietro: nel 1948, lo storico Arthur Schlesinger chiese a 55 colleghi di classificare i presidenti degli Stati uniti come Grandi, Quasi grandi, Medi, Sotto la media o Falliti. Il criterio adottato era il bilancio delle azioni di ciascun presidente come presidente, non ciò che aveva fatto prima o dopo il suo mandato. Da allora i sondaggi tra gli storici sulla grandezza presidenziale sono diventati di moda e vengono compiuti regolarmente: il più recente, a cura del Siena College, mette sul podio Franklin Roosevelt, seguito da Abraham Lincoln e George Washington. Commentando le rilevazioni condotte prima del 1997, lo storico e consigliere di Kennedy Arthur M. Schlesinger Jr. (figlio del precedente) scriveva: «Tra le crisi della nazione, la guerra è la più decisiva, e tutti i primi dieci presidenti, salvo Jefferson, sono stati coinvolti in una guerra prima o durante il loro mandato». In effetti cinque (Polk, Lincoln, Wilson, Franklin Roosevelt e Truman) erano al comando durante altrettanti conflitti e altri quattro (Washington, Jackson, Theodore Roosevelt e Eisenhower) si erano fatti una reputazione come generali prima di essere eletti.

JEFFERSON sembra essersi infilato nel gruppo di testa solo per essere riuscito, nel 1803, ad acquistare l’intera valle del Mississippi (la celebre Louisiana Purchase) raddoppiando di colpo il territorio degli Stati uniti. Più che sui meriti dei personaggi studiati la classifica ci dice molto sulla mentalità dominante tra le élite americane.
Dal 1948 ad oggi, la top ten dei presidenti è rimasta piuttosto stabile malgrado i nuovi arrivi alla Casa bianca e i mutamenti negli storici intervistati: i primi cinque posti sono sempre occupati da Lincoln, Franklin Roosevelt, Washington, Jefferson e Theodore Roosevelt, in ordine variabile. Dal sesto al decimo posto troviamo un po’ più di varietà, con l’ingresso di James Polk, Andrew Jackson e Dwight Eisenhower ma anche di James Madison, Harry Truman, Woodrow Wilson, John Kennedy e perfino Barack Obama.

POLK (1845-1849) era stato il protagonista della guerra contro il Messico che si concluse con l’annessione del Texas e dell’intero Sud-Ovest degli Stati Uniti. Andrew Jackson divenne famoso per aver sconfitto gli inglesi a New Orleans nel gennaio 1815, peraltro due settimane dopo la firma del trattato di pace che aveva messo fine alla guerra iniziata nel 1812 (all’epoca non c’era WhatsApp).
Qualche anno fa David R. Henderson and Zachary Gochenour hanno riesaminato tutte le classifiche pubblicate, scoprendo che pace e prosperità non attiravano affatto l’attenzione dei giudici: i presidenti che avevano lavorato per il disarmo figuravano in fondo al gruppo, come Warren Harding (1921-1923) e Martin Van Buren (1837-1841) che evitò una potenziale guerra con il Messico rifiutando di annettere il Texas. I presidenti che erano in carica durante un periodo di forte crescita dell’economia, come Bill Clinton (1993-2001), al massimo comparivano a metà classifica.

HENDERSON e Gochenour sono quindi arrivati alla conclusione che, coscientemente o no, gli storici usavano come criterio principale il numero di morti americani in percentuale sulla popolazione: più gravi le perdite e più celebrato il presidente. Questo spiega l’insindacabile posizione al vertice di Franklin Roosevelt (Seconda guerra mondiale) e Abraham Lincoln (guerra di Secessione). Sulla base del loro lavoro ciò che appare inquietante è il militarismo degli esperti consultati, ammiratori anche di personaggi come Harry Truman, responsabile dell’uso della bomba atomica sui civili di Hiroshima e Nagasaki, o Andrew Jackson, orgoglioso sterminatore di nativi americani.

Abraham Lincoln e Franklin Roosevelt guidarono il Paese durante guerre “buone” (rispettivamente la guerra di Secessione con l’emancipazione degli schiavi e la seconda Guerra mondiale con la liberazione dell’Europa dal nazismo) ma Woodrow Wilson portò gli Stati uniti nella Prima guerra mondiale senza nessuna vera necessità, per di più gestendo in maniera dilettantesca il trattato di pace di Versailles, indirettamente alle origini della Seconda guerra mondiale.

JOE BIDEN, quindi, sarà deluso se si limiterà a continuare l’aggressiva politica estera condotta fino ad oggi senza impegnare direttamente truppe americane. Supponendo che l’anno prossimo venga rieletto, nel prossimo mandato avrà però un’occasione unica per entrare nei libri di storia: una vera guerra con la Cina a proposito di Taiwan. Sperando che storici e libri di storia esistano ancora dopo un conflitto tra due superpotenze nucleari.

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