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La reinvenzione del Sari: un’arte

La reinvenzione del Sari: un’artePhotograph of Folia Sari from the Other Collection, 2021. Raw Mango (photo Shubham Lodha - Courtesy The Design Museum, London)

Mostra «The Offbeat Sari», curata da Priya Khanchandani al Design Museum di Londra, fino al 17 settembre

Pubblicato circa un anno faEdizione del 2 settembre 2023

«Adesso, mentre Dida le drappeggiava addosso un broccato bordò, Sonali scosse la testa con aria critica; poi prese d’impulso un capo diverso dal mucchio sul letto. Era un sari di seta cangiante, i fili albicocca dell’ordito intrecciati al bellissimo rosa salmone della trama, una galassia di minuscole stelle d’oro e d’argento a dispiegarsi sull’iridescenza dei colori. Un cielo aurorale in cui baluginava ancora lo scintillio degli astri notturni. Avvolgendosi il tessuto sulle spalle, la ragazza si avvicinò alla toeletta della nonna: un mobile massiccio con una specchiera a tre ante di cristallo molato.» Attraverso il riflesso della luce sullo specchio, la protagonista del romanzo di Selina Sen Lo specchio si fa verde a primavera (2007) è la perfetta incarnazione di un’eleganza atavica, quotidiana e allo stesso tempo straordinaria. Nel subcontinente indiano le donne di tutti i ceti sociali indossano il sari da millenni. Una tradizione che si tramanda di generazione in generazione, proprio come l’indumento in sé: preziosi sari di seta per il matrimonio (conservati nella naftalina) sono parte di una dote che include sempre gioielli talvolta pretenziosi.

I was a Sari, bookshop The Design Museum, Londra (ph Manuela De Leonardis)

«La futura sposa entrò nella sala da ballo dell’albergo in cui si svolgeva la cerimonia, e le chiacchiere tra i circa trecento ospiti si interruppero per lasciare spazio alle lodi della sua bellezza.» – scrive Kavita Daswani in Propositi matrimoniali (2003) – «Indossava un sari color lavanda pallido, di autentico pizzo chantilly (o così dicevano tutti), ornato da fili d’argento. Era stato fatto su misura, come ogni capo del ricchissimo corredo di Mira, da uno degli stilisti più famosi in India. Si mormorava che i genitori di Mira avessero speso per un solo sari più di quello che la maggioranza della gente spende per un matrimonio.» Nei suoi circa otto metri di lunghezza (variabili da quattro a nove) per un metro di larghezza, il sari è un capo mutevole che s’indossa sopra un corpetto corto («choli») con drappeggi che variano, come gli stessi materiali di questa lunga striscia di tessuto non cucito, austero o audace, tinto nelle combinazioni di colori pastello o brillanti (al bianco è tradizionalmente demandata la condizione di vedovanza) impreziosito da disegni stampati e ricami in stili differenti. Pierre Loti in L’India (senza gli inglesi), pubblicato nel 1903, girovagando per i quartieri di Hyderabad osserva «artigiani che stampano su stoffe leggere, trasparenti come nebbia, minuti disegni d’argento e d’oro su sfondi rosa, verdi o gialli, disegni inconsistenti che una sola goccia di pioggia può scolorire, ma di tanta deliziosa fattura che anche il più vile tessuto, in virtù di tale maestria, sembra il velo incantato di una fata». Il sari è decisamente un indumento versatile – «fluido» – come si può vedere nella mostra The Offbeat Sari (L’insolito sari), curata da Priya Khanchandani al Design Museum di Londra (fino al 17 settembre). «Il sari sta sperimentando quella che è plausibilmente la sua reinvenzione più rapida nei suoi 5000 anni di storia.» – afferma la curatrice – «Per me e per tanti altri, il sari ha un significato personale e culturale, ma è anche una tela ricca e dinamica per l’innovazione, che racchiude la vitalità e l’eclettismo della cultura indiana.» Per le nuove generazioni l’ispirazione creativa arriva dall’equilibrio e dall’armonia: stilisti come Raw Mango, Akaaro (la casa di moda fondata da Gaurav Jai Gupta), Abraham & Thakore e NorBlackNorWhite disegnano forme che accompagnano il corpo femminile nella libertà di essere se stesse, coniugando la freschezza e la disinvoltura del taglio con un’accurata ricerca del dettaglio, frutto di una raffinatissima produzione artigianale come si può vedere nel percorso espositivo.

«Transformations» è la prima tappa di questo viaggio affascinante attraverso 60 pezzi, tra cui alcuni iconici come una copia del sari in maglia laminata che Tarun Tahiliani ha realizzato nel 2010 per Lady Gaga o quello indossato da Deepika Padukone sul red carpet del Festival di Cannes nel 2022, disegnato dai pionieri dell’alta moda indiana Abu Jani & Sandeep Khosla. Entrato, poi, nella storia per esser stato il primo sari ad un Gala del Met – Metropolitan Museum of Art di New York, il capo sfoggiato nel 2022 dall’imprenditrice indiana Natasha Poonawalla, disegnato da Sabyasachi in tulle stampato con strascico, pietre semipreziose e applicazioni di velluto su un bustier-armatura di metallo lavorato a mano creato da Daniel Roseberry, direttore artistico della Maison Schiaparelli.

Da The Offbeat Sari, installazione (ph Manuela De Leonardis)

 

 

La sperimentazione di design e materiali innovativi procede parallelamente con le soluzioni non convenzionali di cui il sari diventa il potente portavoce di un messaggio che va al di là della moda, sia che si tratti di indumenti da gran soirée come i sari «scolpiti» da Rimzim Dadu con i fili d’acciaio inossidabile. Quanto ai prodotti più commerciali è esemplare quello di chiffon viola di poliestere indossato dalla 46enne Orbee Roy (alias Aunty Skates) nel video del 2021 diventato virale su TikTok mentre, insieme ai suoi figli, va sullo skateboard scardinando stereotipi di genere.

Tra i marchi che più s’impegnano in questa direzione Huemn (fondato nel 2012 da Pranav Misra e Shyma Shetty) promuove una moda giovane e dinamica all’insegna della sostenibilità e dell’inclusione. Da New Delhi a Bangalore, da Chennai a Calcutta, da Ahmedabad a Mumbai il sari è anche strumento di affermazione identitaria, protesta e resistenza come evidenzia in The Offbeat Sari la sezione «Identity and Resistance», dopo «Transformations» e prima di «New Materialities». Fuori dalle passerelle, infatti, il sari è diventato spesso simbolo della contestazione, come nel 2017 quando, durante le proteste, fu indossato dagli agricoltori del Tamil Nadu per riflettere anche sulla condizione delle donne e sul loro ruolo nell’economia rurale o nel 2022 con la mobilitazione di The Hargila Army, un gruppo di attiviste dello stato dell’Assam riunito intorno alla biologa della fauna selvatica Purmina Devi Barman che si battono per la preservazione della specie del marabù asiatico (Leptoptilos dubius), conosciuto localmente come «hargila». Infine, nell’ottica di un’economia circolare associata all’idea di una moda sostenibile e all’empowerment femminile, i sari hanno più di una vita: recuperati e riciclati vengono trasformati in cuscini, tende, sciarpe e borse per la spesa.

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