In una parola
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La pistola di Kamala le bombe di Bibi

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
Pubblicato circa 5 ore faEdizione del 1 ottobre 2024

Ho riguardato su Youtube lo scambio tra Oprah Winfrey e Kamala Harris in cui la candidata democratica alla presidenza degli Usa dice di possedere una pistola, e aggiunge che se qualcuno si introducesse a casa sua sarebbe colpito (“If somebody breaks in my house, they’re getting shot“). Poi, ridendo, aggiunge che forse non avrebbe dovuto dirlo, e che se ne occuperà più tardi il suo staff. Anche il suo candidato vice, aveva detto, è armato.

E la “spiegazione” di queste affermazioni evidentemente concordate con gli staff dell’uno e dell’altra sarebbe che i loro elettori devono essere rassicurati: l’intenzione dei democratici di regolare in modo più restrittivo il possesso e l’uso delle armi non vuole certo ledere il diritto dei cittadini americani, garantito dalla loro Costituzione, di possedere un’arma, ma solo ridurre la possibilità che i loro figli vengano uccisi da qualche pazzoide che entra a scuola con un fucile mitragliatore.

Ma quell’aggiunta – sparerei all’intruso – che senso ha? Una voce dal sen fuggita tra risate che lasciano perplessi? Per essere simpatica agli elettori repubblicani (e a chi sa quanti cow-boy dem)?

Sotto il video di YouTube gli immancabili commenti, italiani, divisi tra chi si scandalizza delle affermazioni della Harris (“faceva meglio a candidarsi con Trump”) e chi approva (“ha perfettamente ragione!”).

Ormai la logica della guerra si diffonde capillarmente. Di fronte all’escalation senza fine e senza “regole” del governo di Israele – e ai massacri che continuano in Ucraina e altrove – mi sorprendo a pensare se non si debba ricercare un senno in quella che mi sembra una follia criminale. Da parte di Netanyahu come da parte di Hamas, Hezbollah e di chi li sostiene.

Avrà qualche ragione uno che se ne dovrebbe intendere, come Gilles Kepel, il quale sostiene che la scelta del capo di Israele di “fare il lavoro sporco” – cioè eliminare radicalmente i nemici giurati del suo Stato – non dispiace a tanti soggetti politici e statuali del mondo arabo. Del resto tanti sunniti hanno festeggiato l’eliminazione di Nasrallah.

Kepel si spinge a teorizzare (intervistato ieri da La Repubblica) che dietro la raffica di omicidi ai vertici delle due formazioni militari ci sarebbe una intesa con una parte dell’intelligence iraniana: a Teheran starebbe maturando addirittura un cambio di regime.

Fantapolitica? Ma se ci fosse un “partito” iraniano contrario alla contrapposizione frontale con Israele e all’appoggio armato ai suoi nemici, davvero queste stragi di altre migliaia di civili innocenti, dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania, e ora al Libano e altri territori mediorientali, aiuterebbero questa tendenza?

Il direttore della Stampa Malaguti, reduce da una iniziativa per la pace a Parigi della Comunità di S. Egidio, finisce per sostenere, nell’editoriale di domenica pur pervaso dall’orrore per tanta violenza bellica, che il vero problema ora è la difesa armata dell’Europa, giacché gli Usa non fanno più i gendarmi del mondo. Sarà.

Il gioco degli americani, puntualmente “sorpresi” dalle nuove imprese di Netanyahu, non è chiaro. Resta il fatto che la tremenda bomba con cui Bibi ha ucciso Nasrallah e distrutto un quartiere di Beirut è made in Usa. E che Harris e Biden, pistole e portaerei alla mano, hanno detto e ridetto che saranno sempre al suo fianco.

A noi che poco sappiamo e nulla possiamo nei giochi di guerra di tutti questi uomini, e alcune donne, al governo (?) del mondo, non resta che quello che riusciamo pensare e a dire contro e oltre la guerra. Sapendo che quasi nulla di quello che ci dava certezze sembra in grado di fornirci strumenti utili. Dobbiamo ricominciare da capo.

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