La Palestina nei frammenti di un’estate
Intervista Kamal Aljafari racconta il suo «An Unusual Summer», nel concorso internazionale di Filmmaker Festival, realizzato con le immagini della telecamera di sorveglianza installata dal padre dell’autore nel 2006 davanti alla sua casa a Ramle
Intervista Kamal Aljafari racconta il suo «An Unusual Summer», nel concorso internazionale di Filmmaker Festival, realizzato con le immagini della telecamera di sorveglianza installata dal padre dell’autore nel 2006 davanti alla sua casa a Ramle
I Un lanciatore di pietre misterioso, vetri dell’auto in frantumi, una due tre volte, troppo per non stancarsi della mano che colpisce senza motivo apparente e poi scappa. Primo passo: scoprire chi si diverte a spese della macchina di famiglia con una telecamera di sorveglianza puntata sul parcheggio sterrato. Ultimo passo: 14 anni dopo recuperare dal garage quella raccolta di vhs per farci un film.
In mezzo c’è un’estate intera di riprese, un unico occhio sullo stesso pezzo di strada nel quartiere palestinese ribattezzato (con macabra ironia) «The Ghetto» dagli abitanti israeliani di Ramle, cittadina a poca distanza da Tel Aviv.
Così nasce An Unusual Summer, ultimo lavoro del regista palestinese Kamal Aljafari, in concorso a FilmmakerFestival (disponibile sulla piattaforma MyMovies fino a domani). Nasce da una scoperta casuale dopo un decennio di oblio: le vhs della telecamera che suo padre, nell’estate 2006, aveva piazzato per incastrare il «lanciatore di pietre», misterioso fracassatore dei vetri della sua auto. Un lanciatore di pietre palestinese, quasi uno stereotipo, ma che poco a che fare con la protesta politica. Più che altro vandalismo, e senza ragione apparente.
La videocamera risolve il giallo. Fa molto di più: rende visibile il quartiere. Rende familiari le sorelle Imses, a passeggio verso il lavoro sempre una accanto all’altra; Abu Ghazal e la sua bicicletta («Non l’ho mai visto a piedi», si legge negli interventi scritti, quasi da film muto, tra una scena e l’altra); George Sausou, tassista in maglietta blu; Abu Rizq e il suo colpetto al bagagliaio delle auto parcheggiate. Svela la quotidianità dei gesti, una luce repentina e fissa che illumina storie che chiedono di apparire, anche solo per pochi secondi. Ne abbiamo parlato con Kamal Aljafari.
Come si realizza un film senza girare nemmeno una scena? Ha costruito una storia «già scritta» o guidato le immagini per poterla raccontare?
Visionando il materiale, ho capito che avevo immagini già molto buone, era materiale per un lungometraggio. Sono solo partito da un’idea, il film è nato nel processo. Nulla era stabilito prima. Ma per esprimere cosa la videocamera era riuscita a catturare avevo bisogno di tempo: accadevano tante cose e apparivano di continuo personaggi che da soli diventavano protagonisti. Ho sfruttato l’indagine sulla persona che rompeva i vetri per condurre lo spettatore nella direzione che più mi interessava: il destino degli esseri umani. Mi sono reso conto che stavo facendo un casting degli «attori», un tipo di casting molto diverso da quello che si usa nel cinema: ero di fronte a storie di persone vere, ma allo stesso tempo non volevo un film che si fermasse alla realtà immediata. An Unusual Summer ha così preso diverse direzioni, tutte riassunte nell’attaccamento al luogo e alla sua poetica.
Il luogo è Ramle. Ramle vista da un’unica angolazione è persone, quotidianità, spari, corse nel buio, auto della polizia: cosa racconta della città e del Ghetto la telecamera di sorveglianza di suo padre?
Dice molto dello stato delle cose, di un luogo che è diventato criminale, discriminatorio nella dimensione politica: la polizia e lo Stato israeliano permettono che accada. Non hanno alcuna intenzione di impedire o fermare la criminalità perché è criminalità palestinese contro palestinesi. È un modo di controllare, di distruggere la società dall’interno, di far credere ai palestinesi che sono i loro stessi nemici. A quel punto sei completamente perso, non ha più idea che il vero nemico è quello che discrimina. Politiche vecchie ma che funzionano sempre. Per questo penso che il miracolo di queste riprese stia nell’aver catturato tutti quelli che vivono nel quartiere. È un miracolo perché in qualche modo ha fatto giustizia, ha dato giustizia a questo persone facendole esistere.
Le frasi che appaiono tra le scene presentano i protagonisti e li rendono così familiari che chi guarda vorrebbe saperne di più. Quali le vite che cela ognuno di loro.
È l’obiettivo del film: guardare persone che generalmente sono invisibili, che vedi passare ma di cui non sai nulla. Questi sono i momenti che mi hanno interessato di più, i gesti che generavano poesia. Se inizi a osservare dalla finestra e hai la pazienza di aspettare, proprio come «aspettava» la videocamera, puoi scoprire un milione di storie.
E poi vengono tirati i fili di una storia ben più ampia: quella della sua famiglia, di suo padre, della Palestina del 1948 e del 1967 e delle origini del Ghetto. È un film politico?
Credo che ogni film sia politico, anche se cerca di non esserlo. In un certo modo registi e artisti hanno la responsabilità del modo in cui trattano i loro soggetti. È un film sulla Palestina ma può essere un film su un qualsiasi altro luogo. Oggi la Palestina e l’idea del colonialismo sono espulsi dalla narrazione, seppure siano sempre presenti. Questo film è una storia universale, sugli esseri umani.
«An Unusual Summer» è parte di una filmografia dedicata alla sua terra natale. Con «The Roof», «Port of Memory» e «Recollection» ha raccontato Jaffa, dal punto di vista economico e culturale tra le città più ricche della Palestina prima della Nakba e oggi ridotta a quartiere di Tel Aviv, dopo aver vissuto uno sfollamento pressoché totale dei suoi abitanti palestinesi. Come questo ultimo lavoro si inserisce nel suo percorso artistico?
È parte del mio lavoro, un’altra dimensione nell’uso delle riprese e dei materiali. È come scrivere una poesia: arriva perché arriva. Qualcosa accade e ti ispira. Tutti questi film sono legati tra loro. Era importante per me fare un tributo alla città di mio padre, dare possibilità di espressione a un luogo che è diventato un non luogo. E allo stesso tempo mi ha stimolato esplorare: lavorando a questo film mi rendevo conto che tutte le scene erano buone. La gente camminava, esisteva, tutto era buono. Questa era la sfida: l’abilità di un regista di tirarne fuori un film, un film underground e senza copyright. Un film alla rovescia perché stravolge la natura del cinema contemporaneo.
E alla fine anche il giallo del lanciatore di pietre è stato risolto.
Mistero svelato, sappiamo chi è il lanciatore di pietre. Una figura importantissima: è lui che ha reso tutto possibile.
ABBONAMENTI
Passa dalla parte del torto.
Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento